«Ciao Matteo, vieni, andiamo». Sono le 12 di giovedì 13 gennaio, una giornata fredda di sole a Roma, Matteo Renzi scende le scale della Protomoteca del Campidoglio, costeggia a ritroso la gente in fila per salutare l’ultima volta il presidente dell’europarlamento David Sassoli e mentre i tre quarti delle persone lo guardano male (la ferita, tra gli elettori dem, è tuttora apertissima) allarga il cappotto blu in un sorriso disarmante per salutare il deputato del Pd Matteo Orfini: «Ciao, Matteo». Gli passa il braccio sulle spalle e, poco prima che arrivi il segretario Enrico Letta per guidare la delegazione del partito in saluto a Sassoli, lo accompagna via come in carrozza, con codazzo svogliato e mesto del pur mite Graziano Delrio che una volta, quando ne era il Gianni Letta, chiamava Renzi addirittura «Mosè». Diplomazia quirinalizia apparecchiata attorno al lutto: del resto anche Gianni Letta, quello vero, ha colto l’occasione per la sua dichiarazione ai microfoni, la prima del millennio.
Così, come in un poderoso salto spazio-temporale, in funzione Quirinale si è ricomposta la coppia: si è tornati ai tempi della Playstation. Quando i due Mattei erano entrambi del Pd: Matteo Renzi, segretario (e premier), e Matteo Orfini, presidente. Sono passati sette anni da quando nel maggio 2015 si misero in foto su Twitter intenti a giocare a Pro evolution soccer nella sede del Pd: l’attesa dei risultati delle elezioni Regionali divenne subito, in quell’immagine, il segno dell’alleanza dei giovani post-comunisti con l’allora Rottamattore. Sintonie pronte ad agire di nuovo, ma sottotraccia, per ora non dispiegate e anzi nemmeno segnate sui taccuini dei cronisti.
Sono sempre sette – mistica ciclica dei numeri – gli anni del silenzio tra Renzi e Silvio Berlusconi: «Sette anni che non ci parliamo», va dicendo Renzi ai quattro venti (dopo averlo taciuto per sette anni) proprio adesso che si appresta a fare l’ennesimo colpo di scena nella storia politica del Cav. Dopo averlo riportato in gioco col patto del Nazareno (2014), dopo averlo buttato fuori dalla maggioranza pur di eleggere Sergio Mattarella (2015) smontando l’asse con Massimo D’Alema, il senatore di Rignano sull’Arno si appresta a tentare l’una e l’altra carta: innalzarlo o politicamente accopparlo, di nuovo.
Come nella più consolidata tra le sue tradizioni, Matteo Renzi per il Quirinale sta infatti tessendo un triplo finale di stagione, per Italia viva. Nel primo plot, sostiene l’elezione di Mario Draghi al Colle, con tutti gli altri partiti, per poi entrare direttamente nel nuovo governo insieme agli altri leader (opzione detta: assi di briscola).
La seconda trama prevede un Renzi che si allea con il centrodestra di Salvini e Meloni per sostenere un nome d’area moderata, tipo Marcello Pera, Letizia Moratti o altri, purché «di livello» come ha detto al Corsera, ossia purché non si tratti del Cavaliere (opzione detta: No B.).
Il terzo scenario cui lavora l’ex Rottamatore è l’esatto opposto: spingere a favore della candidatura di Silvio Berlusconi, votare per lui in Aula facendosi scudo della segretezza e dare subito la colpa dell’accaduto ai Cinque stelle, spaccando così l’attuale maggioranza (opzione detta: sì Cav). Sembra contorto?Dopo tutto anche Renzi s’è già esercitato, nel 2013, quando partecipò – non certo da comparsa – al gioco di società detto “Dei 101” che affossò la candidatura di Romano Prodi al Quirinale.
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di Susanna Turco
espresso.repubblica.it
2022-01-17 17:32:00 ,