Valzer con Bashir è uno di quei film che tutti dovrebbero vedere, almeno una volta nella vita. Il risultato ottenuto da Ari Folman, che al Festival di Cannes raccolse enormi applausi, fu potentissimo, pari solo alle polemiche con cui in patria e diversi paesi arabi fu accolta la sua narrazione sul Massacro di Sabra e Shatila. 15 anni fa questo capolavoro arrivava anche nelle sale italiane e rimane ad oggi uno dei film più importanti per cercare di comprendere quel massacro, in quella fetta di mondo in cui la pace continua ad essere un miraggio.
La confessione di un uomo tormentato dalla memoria
Valzer con Bashir è un film d’animazione unico nel suo genere. Di fatto Ari Folman, facendo appello a ciò che aveva visto con i suoi occhi durante la Guerra in Libano nel 1982, si connetté a quel tema della memoria che già nel suo primo lavoro, la serie BeTipul (poi imitata innumerevoli volte all’estero), era preponderante. Ma certo, riportare al centro quel momento da incubo, quella pietra sulla coscienza di ogni israeliano che ancora oggi è il Massacro di Sabra e Shatila, fu un rischio non da nulla. Ma Folman, al netto di uno stile documentaristico che rende quasi indistinta l’essenza animata, fa qualcosa di più di tornare sui luoghi della tragedia. Di fatto ciò che rende Valzer con Bashir ancora oggi unico è la capacità di essere il racconto di un reduce che cerca di ricordare nonostante tutto e tutti e assieme un’autocritica che dal personale arriva ad un’intera generazione, un intero paese, noi tutti. La verità è ciò che insegue contattando ex commilitoni, giornalisti ma anche psicologi. Perché farlo è così difficile? Perché la sua mente non vuole riportare a galla ciò che i suoi occhi videro in quei tragici giorni di settembre? Perché tutto gli sembra un sogno, una chimera, un’illusione ingannevole?
La strage di Sabra e Shatila ebbe nel governo presieduto da Menachem Begin un complice del peggio di ciò che le falangi armate libanesi di Elie Hobeika fecero sugli inermi profughi palestinesi. La Guerra in Libano aveva trasformato Beirut in una gigantesca prigione per migliaia e migliaia di profughi palestinesi e di militanti dell’OLP. A causa della colpevole negligenza del contingente internazionale (che si eclissò per volere degli americani) e il cinismo con cui le forze armate e il governo israeliano pensarono che lasciando spazio alla rappresaglia dei falangisti, infuriati per l’assassinio di Bashir Gemayel, avrebbero potuto infliggere danni al fronte palestinese, centinaia di civili furono massacrati nel giro di 48 ore. Valzer con Bashir tutto questo lo mostra con uno stile particolare, con Ari che cerca di ricordare, ascolta i racconti di chi come lui imbracciava un fucile, condivide spezzoni di memoria a volte monca, a volte visione palesemente felliniana. Migliaia di tavole disegnate formano un caleidoscopio di quadri in movimento, dominati più che dalle tenebre, dall’assenza di luce nei colori primari, da quel verdolino giallastro perdurante che è quello dei razzi al fosforo di notte, della polvere sui cadaveri, delle divise, di un caldo asfissiante, delle strade rese carnaio. Intanto infuria una colonna sonora scelta con geniale precisione, dove le note rock e disco si incrociano con Chopin, abbracciando l’eleganza e potenza formale più alte, rendendo il proprio grottesco metafora della mancanza di logicità di quelle giornate.
La storia di un terribile massacro rimasto impunito
Il reducismo il cinema l’ha narrato in molti modi diversi. Nella Valle di Elah, Nato il 4 Luglio, Tornando a Casa o Il Cacciatore ci hanno parlato del prima e del dopo, di quanto una guerra cambi ragazzi in giovani vecchi feriti. Ma Valzer con Bashir è più complesso, più stratificato, fa l’inverso e di base indaga la rimozione del ricordo come forma di difesa personale, ma anche come via di fuga collettiva di un paese, Israele, che i conti con i propri errori secondo Ari Folman non li farà mai veramente. Quei 26 cani che Boaz, amico di Ari, sogna di continuo, sono solo uno dei tanti innesti connessi alla religiosità e alla mitologia che il film ci dona, mentre intanto unisce la psicanalisi con la guerra del Vietnam descritta da Francis Ford Coppola, Stanley Kubrick o Oliver Stone, il caos come unico vero dominatore della guerra. La guerra è negazione della responsabilità, pare ricordarci Ari Folman, di conseguenza non può che essere trionfo dell’amoralità. Valeva nei campi di sterminio a cui sopravvissero i suoi genitori, vale in quel Libano che diventò in realtà estensione del conflitto israelo-palestinese che proprio a fine 2023 è tornato ad insanguinare i nostri occhi e spazzare via intere esistenze. Nessuno infatti avrebbe mai pagato per il Massacro di Sabra e Shatila, quello che Ari ed altri hanno dimenticato come forma di difesa della loro razionale empatia contro l’abisso del loro passato. Amnesia dissociativa, ecco il termine utilizzato, quella che impietosire il ricordo per cani o cavalli agonizzanti, ma cancella donne e bambini gonfi di proiettili e decomposizione.
Gli elementi della natura sono contenitore della verità che riaffiora, così come i corpi che sul finale, senza alcun suono, ci vengono mostrati nella terribile realtà, quella che l’inconscio trasforma. Siamo quindi distanti da un documentario tout-court, siamo dentro un terreno ignoto che rende Valzer con Bashir, a 15 anni di distanza, una delle più potenti opere cinematografiche del XXI secolo per coraggio, audacia, verità trasversale in esso contenute. Ari Folman però ci ricorda che il cinema, l’arte in generale, sono risorsa, sono qualcosa di potente con cui salvare la propria anima quando la realtà diventa troppo oscena, quando si vuole preservare il proprio io libero. Ma ciò non può e non riesce ad escludere il ritorno alla realtà, il suo manifestarsi con spietata potenza. Valzer con Bashir, che affrontò il tema della responsabilità anche in senso politico e personale, avrebbe vinto il Golden Globe come Miglior Film Straniero, sarebbe stato scippato dell’Oscar da un’Academy nervosamente divisa su come considerarlo. Ma rimane ad oggi fisso nella memoria collettiva come una delle opere cinematografiche più potenti del nostro tempo, come il film simbolo di quell’odio che non è mai stato seppellito, di cui ancora non si vede la fine a tanti anni di distanza da quelle giornate di Beirut. Purtroppo anche per questo Valzer con Bashir forse non ci ha mai lasciato veramente in questi 15 anni.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2024-01-09 05:50:00 ,