Qualche tempo fa, nel 2018, la previsione era di 24 milioni di nuovi posti di lavoro entro il 2030. Lo scrisse in un rapporto la International Labor Organization, oggi divisione della Nazioni Unite ma nata nel 1919 con il trattato di Versailles in seno alla Società delle Nazioni. Parlava della crescita occupazionale nei settori impegnati sul fronte del cambiamento climatico. Prospettive rosee quindi, del resto solo l’Unione europea per raggiungere la neutralità carbonica nel 2050 intende investire un milione di miliardi (trilione) di euro. Stando però ad un’indagine di Linkedin del 2022, pare non ci siano abbastanza persone rispetto alle richieste: le offerte di lavoro nella sostenibilità sono aumentate dell’8% all’anno dal 2015, mentre i candidati con competenze adeguate solo del 6%.
Ora però sembra che le cose stiano cambiando. In molti starebbero lasciando il proprio lavoro, specie chi è impegnato in compagnie petrolifere, per dedicarsi in aziende legate alla salvaguardia del pianeta, l’economia circolare, la sostenibilità, le fonti di energia rinnovabile. Secondo alcuni, iniziando da Bloomberg Green, si tratterebbe di un “grande addio” (big quit), o di “dimissioni di massa” (great resignation) mosse non solo dal desiderio di avere una qualità della vita migliore ma anche di esser impegnati in un settore che intende fare qualcosa per rallentare le emissioni di gas serra. Sono stati chiamati “climate quitters”.
“Andrei cauto con certe definizioni”, mette le mani avanti Francesco Armillei, dottorando in Scienze Economiche presso l’Università Bocconi e socio del think-tank Tortuga che si è spesso occupato del fenomeno del grande addio in Italia. “In generale al di là dei primi mesi della pandemia, il grande addio da noi è stato un fenomeno molto rapido ma non senza precedenti. Dopo la crisi del 2008 ad esempio, tornata la crescita, è accaduto qualcosa del genere in virtù di un mercato del lavoro più dinamico. Sono numeri quindi storicamente meno unici rispetto a quello che si pensava uno o due anni fa. Però c’è stato un interessante aumento nelle ricollocazioni, specie in campi diversi da quelli di provenienza. E una delle componenti può esser stato il riconsiderare le priorità della vita. Ma non è sufficiente a spiegare tutto il fenomeno”.
La International Energy Agency (Iea) a settembre ha certificato che ormai ci sono più persone impegnate nel settore “clean tech”, tutto ciò che riguarda l’innovazione sostenibile, di quante lavorano per compagnie petrolifere. Alcuni di loro hanno avuto la dimora distrutta da un tornado negli Stati Uniti trovandosi nella condizione di rifugiati climatici. Capendo che l’innalzamento delle temperature non poteva più essere ignorato hanno deciso di cambiare mestiere. Poi ci sono i casi come Dimitri Lafleur, che ha lasciato il suo ruolo di geoscienziato alla Shell in Australia, si è rimesso a studiare e ora lavora per l’Australasian Centre for Corporate Responsibility, dove valuta se le aziende sono allineate con gli obiettivi climatici. Simile la storia di Jan Bohnerth: in Germania era in ExxonMobil, ha lasciato per trasferirsi in Svezia, studiare sviluppo sostenibile e poi entrare in una società di comunicazione che sostiene il “clean tech”. ExxonMobil per altro è il soggetto di uno studio pubblicato su Science dove si sostiene che sapesse bene a cosa stavamo andando incontro a causa dei combustibili fossili fin dagli anni Settanta.
Difficile stabilire con esattezza le singole motivazioni dietro al fenomeno del “grande addio” in generale e in particolare rispetto al cambiamento climatico. L’emergenza sanitaria ha spinto molti a riconsiderare la propria esistenza e i suoi equilibri, ma guardando i dati ogni semplificazione sembra azzardata. Qualcuno parla di “grande ricombinazione” sottolineando che in alcuni casi si tratta di persone che hanno lasciato un impiego per trovarne un altro in una dinamica abbastanza tradizionale. Eppure anche in questo caso le cifre relative a questo passaggio da una poltrona ad un’altra non giustificano l’entità del mutamento.
Un sondaggio del 2022 condotto nel 2022 su 10mila professionisti dell’energia dal Global Energy Talent Index ha rilevato che il 21% della forza lavoro nel settore delle rinnovabili proviene da un altro campo nell’ultimo anno e mezzo, e quasi un terzo di questi ha lasciato industria petrolifera e del gas. Lo stesso sondaggio ha anche rilevato che l’82% degli intervistati che ancora operano nel petrolifero sta prendendo in considerazione il passaggio a un altro settore energetico nei prossimi tre anni e la metà di questi vede di buon occhio un possibile impiego nel campo delle rinnovabili.
“In Italia non ho ancora condotto ricerche specifiche in merito”, conclude Armillei. “Di certo anche qui sta capitando, ma non mi spingo oltre”. Piccolo o grande che sia il fenomeno in Italia dei climate quitters, non c’è nulla di anomalo a ben guardare. La sostenibilità come abbiamo detto è un settore che attira molti investimenti e di conseguenza anche persone. Quel che forse dovrebbe attirare più l’attenzione è il capire se abbiamo un numero sufficiente di persone con le giuste competenze. Le vicende raccolte da Bloomberg Green parlano quasi sempre di persone che hanno avuto la forza non solo di dare le dimissioni ma anche di mettersi studiare per trovare una nuova collocazione nell’economia verde.
Le università italiane si stanno muovendo. Fra corsi di laurea, dottorati e borse di ricerca, si moltiplicano gli atenei che mettono al centro l’ambiente unendo diverse discipline. A giugno ne abbiamo contati 224 su tutto il territorio. Un buon segno, a patto di continuare su questa strada.
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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2023-01-17 05:35:49 ,
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[email protected] (Redazione di Green and Blue) , 2023-01-17 05:35:49 ,
Il post dal titolo: Via dalle compagnie petrolifere verso le rinnovabili. I veri numeri del movimento dei “climate quitters” scitto da [email protected] (Redazione di Green and Blue) il 2023-01-17 05:35:49 , è apparso sul quotidiano online Repubblica.it > Green and blue