La terza edizione del Villae Film Festival si è svolta nella città di Tivoli, dividendosi in due eventi tra luglio e settembre, tra la Villa di Adriano e Villa D’Este. La redazione di 2duerighe ha partecipato alla terza serata del programma che si è svolto dal 6 al 12 settembre.
Una sera di nubifragio può diventare piacevole, soprattutto se ci si rifugia tra le sale affrescate del sito UNESCO di Villa D’Este, lasciata aperta oltre l’orario di visita per un’occasione speciale: quella del Villae Film Festival.
La particolarità dell’evento sta nel vedere film entrati nella storia e nello stesso tempo avere l’occasione di partecipare a dibattiti con esperti di cinema, tra immagini d’archivio e documentari, sulla parte iniziale del giardino della villa, poco prima degli scalini che portano alle fontane che caratterizzano la struttura. Un panorama mozzafiato che in questo caso però ha dovuto cedere il passo ad una sala interna del piano terra. Quest’imprevisto non ha comunque fermato gli organizzatori, tra cui spicca il nome del direttore artistico, nonché direttore dell’Istituto Villa Adriana e Villa D’Este, Andrea Bruciati.
La terza serata: Deserto Rosso di Antonioni
Al terzo appuntamento del festival, il direttore artistico decide di presentare l’acclamato film del regista italiano Michelangelo Antonioni: Deserto Rosso del 1964.
Vincitore del Leone D’Oro al miglior film alla 25ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, l’importanza della pellicola sta proprio nell’incontro tra due artisti: il regista con il direttore della fotografia Carlo Di Palma. Il film è il primo a colori per Antonioni e la prima collaborazione con Di Palma, che grazie a quest’ultimo vincerà un Nastro d’argento.
Non a caso, tra gli ospiti della serata spicca il nome della compagna del compianto direttore della fotografia, la produttrice Adriana Chiesa.
Conversazioni sull’arte tra l’arte: dal festival di Venezia ai temi attuali.
La prima cosa che viene mostrata è un cinegiornale sul Festival di Venezia del 1964: un evento meno mondano e scintillante di quello che vediamo oggi. Tra le immagini del lido, spicca però la vittoria di Antonioni: rilascia qualche intervista per poi dirigersi, accompagnato dalla compagna e musa ispiratrice, Monica Vitti, verso l’imbarcazione che lo sta attendendo.
Un filmato di pochi minuti che però ci fa capire l’atmosfera dell’epoca:
“Era un’epoca dove c’era più libertà creativa. Le immagini patinate di oggi sono anticreative” Ribadisce il direttore della serata. Un’affermazione con cui si trova d’accordo anche Adriana Chiesa, evidenziando però l’attualità della pellicola del regista. Quello che viene rappresentato da Antonioni è un mondo inquinato, grigio, dove l’incomunicabilità è al centro della storia. Una narrazione che si intreccia tra personaggi di una classe più volte raccontata dall’autore: la borghesia.
“Mi ricorda molto la situazione pandemica, per questo lo definisco attuale: ci sono tutti gli elementi di oggi, oltre all’inquinamento c’è anche la mancanza di abbracci, di manifestazioni affettive e c’è il disagio psichico della protagonista Giuliana (Monica Vitti).”
Un disagio che è ben presente per tutta la pellicola. In questo contesto, i colori diventano i protagonisti della storia, trasformandosi in portatori di un timbro emotivo. E’ qui che sta il forte legame con l’arte, frutto di una profonda collaborazione tra il regista e il direttore della fotografia: dall’unione delle due menti artistiche nasce una sorta di architettura cromatica che tiene insieme tutti gli elementi della pellicola.
Di Palma: il maestro della fotografia
Se si parla del valore del colore in un film come Deserto Rosso, non si può non parlare di chi ha dato vita all’ assetto cromatico della pellicola.
Carlo Di Palma ha collaborato nella sua vita, oltre che con Antonioni, con altri registi di fama mondiale come Visconti, Monicelli e Woody Allen. Quest’ultimo, come racconta Chiesa, è stato un grande fan di Di Palma e solo dopo tredici anni di telegrammi inviati al direttore della fotografia, a cui lui non rispose per molto tempo, riuscì a lavorarci, dando vita ad una lunga collaborazione che ha dato origine a film entrati nella storia del cinema. A lui è stato dedicato anche un documentario: Acqua e Zucchero del 2016.
La pellicola: tra rosso e incomunicabilità
L’ inquinamento delle fabbriche fa da sfondo alle storie dei protagonisti: Giuliana, donna sola che è appena uscita da una clinica in seguito ad un tentato suicidio, percorre le strade fangose nei pressi di una fabbrica. I personaggi che la seguono sono il figlio e il marito, una persona che dovrebbe starle accanto e comprenderla ma che invece si presenta come un estraneo e che non riesce a capire il suo trauma. La monotonia della sua vita borghese si interrompe quando la donna entra in contatto con l’ingegner Corrado Zeller (Richard Harris), collega del marito, che sembra essere l’unica persona in grado di entrare nel suo mondo. E’ con lui che subentra il colore bianco protagonista delle pareti dell’hotel dove alloggia, che fa da contraltare al rosso, presente invece in quasi ogni dettaglio del film: dai tubi delle fabbriche alla struttura di una nave fino ai pali della corrente. Il bianco è invece portatore di un altro messaggio: una via di fuga che la protagonista cerca costantemente da quel mondo grigio e rosso che la circonda. Zeller e il colore della purezza si riveleranno però l’ennesima delusione per Giuliana, costretta a continuare la sua esistenza, con lo sguardo fisso verso la macchina da presa e circondata da un mondo sfocato, monotono e sempre più distante.
Il contatto fisico è quasi assente e i dialoghi sono spesso alternati da lunghi silenzi, sormontati solo dai rumori della fabbrica. L’unico momento in cui il gruppo di personaggi borghesi si immerge in un momento di leggerezza, lontano dall’intoccabilità di quel mondo, è la scena girata interamente all’interno di una vecchia abitazione, in una stanza completamente rossa. Un habitat sicuro che però si rivela poco credibile: è un momento di euforia effimero, la stessa stanza verrà distrutta poco dopo dagli stessi personaggi che bruceranno le pale dipinte delle mura per riscaldarsi.
Ed effimero è anche il momento che si vive all’interno di Villa D’Este. Degli incontri che ci fanno ben sperare negli eventi culturali. Delle serate che non possono che far del bene alla città che le ospita e alla valorizzazione di quella stessa cultura che narrano.
Source link
di Marta Giorgi
www.2duerighe.com
2021-09-10 16:01:10 ,