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E’ stato un carcere in gravi
difficoltà, quello di Santa Maria Capua Vetere, nel territorio di
Caserta, durante il Covid: le pesanti criticità organizzative
non furono tenute in alcuna considerazione dai vertici del
Dipartimento dell’gerenza Penitenziaria (Dap), che vi
trasferirono i detenuti protagonisti di violente rivolte in
altri penitenziari italiani, trasformandolo in una polveriera
poi esplosa il 6 aprile 2020, con le violenze operate dai
poliziotti penitenziari ai danni di quasi 300 detenuti del
reparto Nilo.
E’ quanto emerso dalla testimonianza che Francesco Basentini,
capo del Dap durante il primo periodo del lockdown per il Covid
e in particolare quando avvennero i fatti nel carcere casertano,
ha tenuto al maxi-processo in cui figurano 105 imputati, la
maggior parte dei quali agenti della penitenziaria, ma anche
funzionari del Dap come l’allora provveditore regionale campano
alla carceri Antonio Fullone, e medici dell’Asl di Caserta.
La testimonianza di Basentini non si è esaurita nell’udienza
di ieri con l’esame del pm Alessandro Milita e i controesami
degli avvocati di parte civile e degli imputati, ma continuerà
anche lunedì 13 gennaio, visto che proprio il pm ha annunciato
di voler fare altre domande all’ex capo Dap, oggi sostituto alla
Procura di Roma.
Ulteriori domande che potrebbero vertere proprio sulle
criticità vissute dal carcere nel primo periodo di lockdown, di
cui del resto lo stesso Basentini aveva parlato ieri, dando conto
di uno “scollamento tra la direzione del carcere e il governo
della Penitenziaria, dove la direttrice non c’era per motivi di
salute e dovemmo con difficoltà nominare una reggente”.
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