di Lorenza Negri
What We Do in the Shadows, il mockumentary ispirato dall’omonimo film di Taika Waititi e Jemaine Clement, è disponibile dal 16 febbraio su Disney+ come Star Original (in chiaro arriverà su Rai4) con le puntate della terza stagione. È raro che una serie migliori con il trascorrere del tempo, ed era improbabile che una comedy già tanto eccellentemente sarcastica, brillantemente ridicola e incredibilmente divertente come la cronaca della convivenza di quattro vampiri egoriferiti e nullafacenti portasse un margine così consistente di miglioramento. La famiglia disfunzionale composta dal guerriero ottomano Nandor, dal debosciato nobile inglese Lazlo, dalla superstiziosa zingara Nadja, dal noioso vampiro psichico Colin e dal loro famiglio, il frustratissimo Guillermo, affronta una nuova fase della propria coesistenza, e si chiude con un cliffhanger sorprendente ricco di incognite e potenzialità.
Facciamo un passo indietro: dopo aver massacrato buona parte della gente vampiresca più eletta di Staten Island, Nandor e Nadja vengono eletti (da tale Viago, Taika Waititi in una buffissima guest “analogica” dispensata via vhs) nuovi responsabili del Consiglio di succhiasangue locale. Lazlo, trascurato dall’immortale amata, si avvicina lentamente a Colin e Guillermo cerca di integrarsi nella dinamiche familiari come membro alla pari. La famiglia si allarga, sia per il ritorno della Guida, il supervisore meticoloso e invadente del Consiglio, sia per la presenza ricorrente dei vicini Sean e Charmaine. I Vampiri sono sempre più nevrotici e in balia delle proprie paranoie, idiosincrasie e manie. Nandor e Nadja, in competizione per il potere sul Consiglio, sono il pretesto per una pungente critica della classe dirigente inetta e incapace di affrontare qualsiasi mansione, ma troppo orgogliosa per istruirsi o chiedere aiuto.
Completamente dipendenti per la propria salvaguardia da Guillermo – che si è ormai rivelato un micidiale ammazzavampiri – non riescono ad accettarlo o rispettarlo veramente. Lazlo è sempre più volgare, perverso, perso nelle sue pose decadenti da Dorian Gray vampiresco mentre Colin, in vista del suo centesimo compleanno, sembra andare incontro a una indecifrabile evoluzione che lo rende più amichevole e “normale”. La terza stagione di What We Do in the Shadows è la più ardita, scioccante e provocatoria, ma anche la più “umana”: i vampiri soffrono di depressione, solitudine, bisogno di affetto e mal di vivere come i mortali, e mai come in questa annata l’ilarità va di pari passo con una soffusa malinconia.
L’eternità non è tutto sommato tutto questo spasso e a sentirsi perso e senza uno scopo è il più anziano di tutti, Nandor, che nel corso delle dieci puntate va incontro a un penoso crollo psicologico (innescato dalla scoperta del modello cosmologico del Big Bang) e scandito dalle tappe di una tipica crisi di mezza età: frequentare donne giovani, riesumare vecchie fiamme, aderire a demenziali culti new age, ignorare i problemi, partire alla ricerca di sé stesso. Nadja soffre talmente la solitudine da non poter vivere senza il suo doppelganger – l’inquietante bambola Dolly – e si sommerge di lavoro per attutirne i sintomi; Lazlo cerca di riemergere dalla propria debauchery dannunziana frequentando i comuni mortali e Colin coltiva l’ambizione di avere relazioni sentimentali durature.
I Vampiri di What We Do in the Shadows, per quanto eternamente scollati dal mondo, egocentrici e soprannaturalmente inutili sono creature in evoluzione come gli umani. A differenza di altri vampiri millenari non hanno perso totalmente la propria umanità, non sono cristallizzati nel tempo e dell’immobilità dell’immortalità: i rapporti tra di loro e con gli altri mutano, le loro certezze vacillano, i loro desideri cambiano. La genialità dello show resta quella di trasferire questa “normalità” in un contesto soprannaturale, di immergerlo in un’atmosfera gotica suggestiva: la villa sempre più buia, polverosa e austera abitata da creature soprannaturali dal look darkettone in contrasto con l’anonimo, solare vicinato tipico dei quartieri suburbani americani. Kayvan Novak, Natasia Demetriou, Matt Perry, Mark Proksch e Harvey Guillén sono ormai tanto affiatati, realistici e naturali nella propria recitazione da illudere lo spettatore che What We Do in the Shadows sia un vero documentario su una famigliola solamente un po’ bizzarra.
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www.wired.it
2022-02-15 13:30:00