X-Men 2 compie vent’anni. Leggerlo a molti di noi fa salire un groppo alla gola, misto ad un’ incredulità assolutamente comprensibile. Pare soltanto ieri, eravamo ragazzi, i cinema costavano molto meno ed erano molto più affollati, e quel 2 maggio del 2003 il secondo episodio della saga dei mutanti di Jack Kirby e Sten Lee entrava nelle nostre vite. Oggi possiamo tranquillamente dire che Bryan Singer abbia donato al mondo non solo un grandissimo cinecomic, il migliore mai fatto su dei personaggi Marvel, ma soprattutto un grandissimo film. Il mondo si rese conto che i personaggi dei fumetti potevano essere portatori di uno spirito dei tempi, farsi interpreti di paure, promesse e un particolare momento della società sul grande schermo.
Un film sui supereroi connesso al post 11 settembre
X-Men 2 ripartiva dalla fine del primo episodio e ci mostrava un’America ancora divisa, titubante, dove buona parte dell’opinione pubblica riteneva i mutanti un pericolo, anzi un errore della natura. La sceneggiatura di Michael Dougherty, Dan Harris e David Hayter fu creata ispirandosi al meglio di ciò che Chris Claremont aveva dedicato al Professor X, Magneto, Wolverine e tutti gli altri personaggi di quel coloratissimo mondo. La sequenza iniziale, con Nightcrawler che per poco non riusciva ad uccidere il Presidente degli Stati Uniti, rimane una delle più indovinate di sempre del genere e un simbolo di quel periodo. Da quel momento avremo fatto la conoscenza di una nemesi assolutamente fantastica, come quella del Colonnello Stryker (Brian Cox era un capo anche prima di Succession) deciso a cancellare i mutanti dalla faccia della terra. Fanatico, astuto manipolatore, si aggirava portando con sé il peggio dell’America in divisa. Poi c’era il Wolverine di Hugh Jackman, in realtà il protagonista principale del film. L’attore australiano riuscì a rendere il suo, un personaggio incredibilmente complesso, un misto di ferocia e vulnerabilità che l’avrebbe depositato in modo titanico dentro l’immaginario collettivo, come solo a Christopher Reeve era capitato.
X-Men 2 abbracciava in pieno un’identità ibrida, in cui alla dimensione dell’avventura, si associava a quella della spy story, dell’action anche a tinte forti. C’era molta violenza nel film, una quantità che oggi sarebbe probabilmente impensabile, con un tono cupo che lo rendeva serio, ma forse in realtà il modo migliore per definire X-Men 2 è quello di maturo.
Niente ironia adolescenziale, quella che infine ha contribuito a distruggere il cinecomic concepito dalla Marvel sul grande schermo, niente personaggi macchietta, ma un mondo in preda al caos, alla paura, vittima dell’eversione interna.
Fedele alla linea narrativa creata da Lee, X-Men 2 introduceva anche l’argomento della lotta politica, ben rappresentata dalla contrapposizione tra loro, tra il Professor X di Patrick Stewart, e un Magneto a cui Ian McKellen donò carisma, una forza di volontà e determinazione semplicemente incredibili. Il primo era un moderato che credeva nel dialogo, il secondo un rivoluzionario che non si fidava minimamente potere, delle istituzioni, sapeva che il diverso dalla norma verrà sempre perseguitato dalla società, quella americana in particolar modo. Del resto proprio in quell’inizio di XXI secolo il fenomeno era evidente.
Era il 2003, erano passati soltanto due anni dall’11 settembre, l’America era in preda ad un’ondata di nazionalismo crescente, la narrativa era quella della retorica militarista, dell’unità tutti i costi, dell’ostracismo verso qualsiasi forma di dissenso. La Presidenza di Bush Jr. aveva fatto provare il cosiddetto Patriot Act, oggi tranquillamente definibile come un atto di barbarie verso i diritti dell’uomo, Il partito repubblicano aveva fomentato un profondo razzismo e una profonda intolleranza verso le minoranze etniche e i musulmani. X-Men 2 anche per questo rimane un cinecomic diverso dagli altri, perché nella missione per smascherare Stryker, in quella trama fitta di complottismo, di cenni storici ai poteri oscuri che governano gli Stati Uniti e la sua politica, vi era giocoforza una rappresentazione anche di ciò che il paese era diventato. L’amministrazione Bush con la sua teoria del potere esecutivo unitario, con figuri come Dick Cheney o Donald Rumsfeld aveva reso l’America una negazione dei diritti. Le bugie che Stryker usava nel film, non erano diverse da quelle che Colin Powell avrebbe usato per giustificare l’invasione dell’Iraq, la montagna di balle a causa delle quali ci sarebbe stato un altro Vietnam, stavolta in Medio Oriente.
La perfezione di un film corale ineguagliabile
Il film regalava però grandi emozioni agli amanti dei fumetti grazie a sequenze action di grande impatto. Quella dell’attacco alla scuola di Charles Xavier ancora oggi ne manda tante a scuola e il cast corale composto anche da Halle Berry, Famke Janssen, James Marsden, Anna Paquin e Alan Cumming si muoveva con grande armonia. In X-Men 2 ogni personaggio veniva caratterizzato in modo efficace, con la Mystica di Rebecca Romijn che abbracciava per prima il concetto di fluidità nella narrazione moderna. Parte della critica all’epoca sottolineò come l’insieme bene o male non potesse allontanarsi della forte connessione con l’epoca della contestazione, con la generazione del ’68 e le sue diverse anime che lottavano contro il sistema. Qualcosa che convalida il legame di questo film con la situazione politica dei primi anni 2000, con l’America stretta nella lotta al terrorismo. In fin dei conti il clima non era diverso dall’epoca in cui il Governo di Johnson e Nixon aveva usato ogni mezzo per continuare una guerra inutile, per soffocare il dissenso, facendo carta straccia di leggi e diritti, dei principi fondamentali su cui teoricamente si basava la loro nazione.
Di fronte a tutto questo, definire X-Men 2 un film politico è sbagliato ma definirlo un film dai contenuti politici è pura verità. La sua finalità ultima, quella di intrattenere, era rafforzata quindi da una volontà di essere profondità, non semplicemente estetica. Gli effetti speciali, il trucco, le scenografie erano di altissimo livello, ma sarebbero stati vuoti a forma senza la capacità da parte di Bryan Singer di rendere l’insieme credibile, ma più ancora verosimile nei suoi personaggi ed eventi, senza risultare distante dalla quotidianità.
Wolverine, Ciclope, Tempesta, Jane, Rogue, tutti loro sono privi dalla leggerezza del MCU, come della dimensione semidivina che avrebbe cercato Snyder. Sono esseri umani dotati di poteri con cui convivono con grande difficoltà, per molti di loro è più una condanna che un dono.
La morte aleggia su tutto e tutti, così come rabbia e sofferenza, la loro differenza dalla norma li rende a tutti gli effetti non diversi da quegli afroamericani, la cui tragica situazione nella società americana aveva mosso la creatività di Lee e Kirby. Tutto questo lo rende non iconico come lo Spiderman di Raimi, ma sicuramente migliore come film in sé, come opera cinematografica in generale.
Quei primi anni 2000 videro la fine dell’illusione ottimistica degli anni ‘90, crollata con le Torri, il ritorno al medioevo bellico, la globalizzazione che strangolava l’opposizione a Toronto e poi Genova, il populismo che distruggeva il progressismo. X-Men 2 avrebbe avuto un epilogo della trilogia alquanto insufficiente, a cui però sarebbero seguiti i bellissimi prequel firmati ancora da Synger. Giorni di un futuro passato in particolare, assieme a questo rappresenta l’apice della qualità complessiva espressa dai personaggi Marvel in senso assoluto sul grande schermo.
Perché se lo Spiderman di Sam Raimi, se Robert Downey junior come Iron Man o il Cap di Evans li amiamo come fossero amici di famiglia, X-Men 2 invece descriveva un’epoca storica e noi che ne facevamo parte. Non aveva un universo cinematografico monumentale come quello che garantì ad Infinity War o Endgame di diventare oggetto di culto collettivo, ma cinematograficamente è molto superiore in ogni componente che valga veramente, in ogni aspetto che ci ricorda che il successo e l’importanza non sono la stessa cosa.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-05-02 04:50:00 ,