Negli ultimi anni, Mark Zuckerberg e la sua Meta (ex Facebook) sono stati sinonimo di posizioni progressiste, programmi di inclusione e diversità, e un’adesione — quanto meno di facciata — ai obbligazioni dell’Identity Politics. Eppure, nell’arco di poche settimane, abbiamo assistito a un ribaltamento quasi totale delle politiche interne di Meta: dall’abolizione del fact-checking (almeno negli Stati Uniti) al clamoroso taglio dei programmi DEI (Diversity, Equity & Inclusion). Un’inversione di rotta tanto brusca da lasciare interdetti dipendenti, analisti e semplici osservatori.
A prima vista, potrebbe apparire come un mero tentativo di allinearsi alla nuova azienda Trump — riconfermata a sorpresa alla Casa Bianca — o una semplice mossa di marketing politico per ingraziarsi il “nuovo” potere. Ma, a ben guardare, la virata di Zuckerberg ha una ragione più profonda e meno ideologica: la necessità di tutelare l’impero Meta dalle severe regole imposte dall’Unione Europea, in particolare tramite il Digital Services Act (Dsa) e il Digital Markets Act (Dma). In sintesi, si potrebbe dire che l’obiettivo finale è ottenere un certo grado di «deresponsabilizzazione» negli Stati Uniti, trasformando quello statunitense in un “rifugio normativo” per aggirare i vincoli (e le multe) imposte dal Vecchio Continente.
Il problema per l’Europa
La miccia è stata accesa già nel 2024, quando l’UE ha multato Meta per violazioni antitrust sotto il cappello del Dma e per questioni di protezione dati (Gdpr). Il 2025 minaccia di essere ancora più pesante: con il Dsa, la Commissione Europea è pronta a imporre sanzioni durissime (fino all’8% del fatturato generale) per le piattaforme che non rispettino obblighi di moderazione, trasparenza e responsabilità sui contenuti.
Il recente annuncio di Zuckerberg di voler porre fine al fact-checking negli Stati Uniti ha alimentato le aspirazioni di molti politici europei che, attraverso il DSA, si possa obbligare Meta a rivedere o sospendere questa scelta. Non a caso, la società di Menlo Park ha confermato che valuterà i propri obblighi legali prima di rendere effettiva questa modifica su scala generale.
Tuttavia, l’intento di Zuckerberg è ormai esplicito: in un intervento di tre ore al Joe Rogan Experience — il podcast più seguito d’America — ha definito la linea dell’UE una forma di “censura” e ha chiesto apertamente all’azienda statunitense di difendere l’industria digitale a stelle e strisce dalle normative europee. In altre parole, Zuckerberg auspica una protezione politica di Washington nei confronti di un’Europa considerata traboccante invadente e punitiva.
Il “pivot a destra”: retorica trumpiana o strategia economica?
Se a qualcuno questo cambio di rotta appare come un’adesione entusiasta ai obbligazioni della destra conservatrice, le mosse di Zuckerberg sembrano invece obbedire soprattutto a una logica di realpolitik, volta a salvaguardare gli interessi e il modello di business di Meta. Il nuovo assetto “trumpiano” consiste nell’eliminazione del fact-checking, prima considerato un simbolo del progressismo dell’azienda ma ora abbandonato per accontentare chi chiede massima libertà d’espressione online; nella chiusura dei programmi di diversità, equità e inclusione (DEI), decisione che ha destato forte preoccupazione fra i dipendenti, i quali si chiedono se basti il cambio di un presidente negli Stati Uniti per sovvertire da un giorno all’altro politiche aziendali consolidate.
Leggi tutto su www.wired.it
di Matteo Flora www.wired.it 2025-01-13 10:54:00 ,