La professoressa Diolaiuti è stata una delle curatrici del nuovo Catasto dei Ghiacciai, basato sulla rivelazione di foto ad altissima risoluzione rilevate tra il 2005 e il 2009, e sviluppato dall’Università degli Studi di Milano con collaborazione di tutte le regioni glacializzate italiane. “Il Nuovo Catasto descrive i 903 ghiacciai presenti sulle montagne italiane (902 sulle alpi e 1 sull’appennino, il Calderone nel Gran Sasso)”. È l’aggiornamento del Catasto dei ghiacciai 1959-1962 realizzato dal Comitato Glaciologico Italiano in collaborazione con il CNR: il confronto tra il vecchio e il nuovo inventario ci dice che tutti i ghiacciai italiani sono diminuiti di circa il 30% in poco meno di 60 anni. “Non solo: il confronto dei dati del Catasto Unimi con quelli del Catasto Europeo ha evidenziato che negli ultimi 10 anni i ghiacciai italiani hanno perso ancora area, il 13%, e la perdita totale dal 1959 ad oggi assomma a 200km², un’area confrontabile a quella del lago Maggiore”.
I ghiacciai italiani potrebbero sparire: quali saranno gli effetti
Innanzitutto, avere 903 ghiacciai non è una buona notizia: la loro quantità è data dal fatto che il caldo li riduce in pezzi diversi. Tanto che solo tre ghiacciai hanno una superficie superiore a 10 km²: Adamello, Miage e Forni. Proprio in relazione a quest’ultimo, la Statale di Milano ha sviluppato un sistema di monitoraggio continuo consultabile online:
Un articolo scientifico firmato dalla Diolaiuti e altri autori sulla rivista La Houille Blanche, fa lo screening attuale dei nostri giganti bianchi. I 903 ghiacciai italiani sono tutti nelle Alpi, a parte due conformazioni sugli Appennini. A livello regionale, è la Valle d’Aosta che ospita più ghiacciai in Italia (132,90 km2), circa il 36% del totale. Segue la Lombardia (87,67 km2, 24% del totale) e l’Alto Adige (84,58 km2, 23% sul complessivo). Ma proprio per quanto detto all’inizio, è la regione Lombardia ad ospitare il maggior numero di ghiacciai (230) pur non essendo quella con l’estensione glaciale maggiore in Italia: questo perché l’84% dei corpi glaciali è più piccolo di mezzo chilometro quadrato. Secondo il Wwf, se le temperature continueranno ad aumentare, tra il 2070 e il 2100 i ghiacci eterni dalle Alpi Orientali potrebbero del tutto sparire: stessa sorte che, seppure più difficile, potrebbe toccare a quelli delle Alpi Centrali. I ghiacciai rimarrebbero solo sulle Alpi Occidentali, quelle più alte. Il problema dello scioglimento è progressivo, a causa anche del fatto che i ghiacciai diventano sempre più scuri (il fenomeno del darkening, descritto in precedenza) e questo li rende ancor più vulnerabili alle radiazioni solari. La celebre rivista Science ha descritto in uno studio recente la prospettiva di Alpi sempre più verdi e quindi sempre meno bianche: le fasce più esposte all’aumento della vegetazione sono quelle intorno ai 2300 metri d’altitudine, mentre quelle soggette alla perdita di manto nevoso sono intorno ai 3mila metri.
La scomparsa dei ghiacciai avrà effetti diversi e di sicuro impatto: ad iniziare dall’idroelettrico che gira nelle regioni alpine. “Questo fenomeno – prosegue la professoressa della Statale – comporterà impatti estetici e paesaggistici sulle nostre montagne (le Alpi saranno sempre più simili agli Appennini), impatti sul turismo e sulla frequentazione, impatti sulla biodiversità e sulla geodiversità e sui sistemi ecologici. Basti pensare che i miei colleghi ecologi hanno trovato sui ghiacciai batteri capaci di demolire alcuni inquinanti. Senza ghiaccio questi batteri non vivono e questo loro ruolo virtuoso di bio demolitori verrà a mancare”.
Come reagire allo scioglimento dei ghiacciai
Innanzitutto, il monitoraggio continuo per misurare la pericolosità dei fenomeni di rischio glaciale come spiega Diolaiuti: “Va specificato che per pericolosità in geologia si intende la possibilità che un evento naturale avvenga senza valutare le conseguenze per l’uomo e le sue opere. Invece si parla di rischio quando oltre alla possibilità che l’evento accada si considerano e valutano i potenziali impatti sull’uomo, le infrastrutture e gli insediamenti. È allora evidente che se un crollo come quello della Marmolada avvenisse in un settore remoto dell’Antartide non frequentato da scienziati e alpinisti, senza presenza umana, rappresenterebbe un evento molto pericoloso ma con rischio nullo. L’evento sulla Marmolada per il luogo dove è avvenuto ha rappresentato non solo un evento di elevata pericolosità ma anche un incidente di grande rischio per i danni causati”.
Va ribadito che la Marmolada non presentava profili di pericolosità, ma l’alta affluenza umana attraverso strutture turistiche e impianti di trasporto lo rende un luogo da monitorare con un’attenzione specifica. Spesso emergono soluzioni temporanee, a tampone, per cercare di impedire lo scioglimento dei ghiacciai. “Non sono possibili reti di contenimento o strutture che impediscano il crollo di porzioni glaciali ma si può pensare di svuotare con bypass tasche glaciali o crepacci pieni di acqua di fusione o di interdire un’area glaciale soggetta a rapida evoluzione. Ma questo si potrà fare solo dopo che un serio programma di monitoraggio verrà avviato a scala nazionale sui ghiacciai più frequentati”. È chiaro che quindi c’è bisogno di dati aggiornati e ricercatori in grado di interpretarli. Bisogna prima intervenire sul problema in modo strutturale e complessivo e solo dopo pensare a soluzioni di tamponamento. Non si tratta più di preservare il nostro paesaggio storico ma la nostra esistenza serena all’interno del paesaggio che diverrà, attraverso decisioni rapide e intelligenti: è questo il senso del termine resilienza.
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di Gianluca Schinaia www.wired.it 2022-07-06 05:10:00 ,