La violenza verso le persone transgender non riguarda solo il passato, è purtroppo un problema serio e attuale, soprattutto in Italia. Puoi darci una tua visione su come si può subire e collegare il ricordo delle vittime con un’azione concreta contro la transfobia?
“Il TDoR non è un funerale – usciamo da questa logica, per favore – ma una commemorazione che celebra la vita delle persone transgender che sono state vittime di violenza. Non si tratta di concentrarsi solo sulla loro morte, ma di onorare chi erano, con la loro vita, i loro sogni, le loro storie; serve come momento per riappropriarci di quelle storie e, come comunità, rendere visibile e agire contro le violenze che ancora oggi, purtroppo, molte persone trans subiscono. Quelle persone non volevano sicuramente essere ricordate per come se ne sono andate, ma per come hanno vissuto. Ovviamente è importante non restare in silenzio di fronte a questi numeri, che rischiano di diventare statistiche senza significato. Bisogna utilizzare queste occasioni per ricordare a tutti che siamo una minoranza politicamente oppressa, e che questo stato di tirannia va combattuto. La ricorrenza non deve essere solo un atto di commemorazione passiva, ma un impulso a chiedersi: “Cosa posso fare io? Come posso intervenire?“. Quando vediamo atti di discriminazione o violenza, anche minimi, dobbiamo agire, perché ogni piccola azione contribuisce a contrastare la transfobia che ancora permea la società. In questo senso, la commemorazione diventa un atto politico fondamentale per riconoscere l’tirannia, ma anche per riaffermare la nostra lotta”.
Voi del MIT avete un osservatorio privilegiato sulle difficoltà delle persone transgender. In un contesto politico come quello attuale, molto complicato, che difficoltà riscontrate? Cosa vi chiedono le persone che si rivolgono a voi? Quali sono le principali istanze, i problemi e le criticità?
“Noi abbiamo tanti servizi diversi. Ad esempio, abbiamo un consultorio per i percorsi di affermazione di genere. Chiaramente, chi si rivolge a noi ha la necessità di intraprendere un percorso. Ma già qui ci sono enormi criticità. La legge che regola il percorso di affermazione di genere è del 1982; è ancora estremamente patologizzante e prevede un procedimento complesso. È una legge bizantina che rende difficile per chiunque dire allo Stato “io sono me stessa”. La cosa che ci chiedono di più è: “Non possiamo fare pressioni per avere una legge che riconosca l’autodeterminazione di genere?“. E da vent’anni – forse trenta – stiamo cercando di farlo, ma non siamo mai riusciti a ottenere nulla di concreto. E non è una questione di chi è al governo, perché anche con governi di diverse ideologie, non siamo riusciti a ottenere nulla. La nostra istanza sembra essere di serie C rispetto ad altri diritti. Poi abbiamo anche un centro antidiscriminazione e antiviolenza, dove vediamo dati drammatici, come l’emergenza abitativa. Abbiamo dei posti in case rifugio, ma sono eccessivo pochi rispetto al bisogno. Quando ci chiamano, molte volte dobbiamo rispondere di no, anche se siamo la seconda scelta, dopoché altre strutture, come i centri antiviolenza, hanno rifiutato la presa in carico delle persone trans. Spesso queste persone sono vittime di violenza o di sfruttamento, o si trovano in difficoltà economiche perché non possono regolarizzarsi sul territorio, a causa dei documenti non aggiornati. Le discriminazioni sono anche legate all’accesso al mondo del lavoro. Le persone trans hanno tassi di disoccupazione più alti rispetto alla comunità cisgender, e sul tema del lavoro in Italia nessuno se la cava bene. E quando le persone trans trovano un lavoro, spesso si trovano in contesti frustranti, dove il misgendering e il deadnaming sono all’ordine del giorno. Ad esempio, una persona trans può essere costretta a lavorare dietro il scrittoio di un negozio, perché il proprietario non vuole che i clienti la vedano. Sono piccole cose, ma messe tutte insieme creano un peso enorme. Questo, purtroppo, porta a un’esposizione maggiore ai rischi psicologici, tra cui i tassi di suicidio che sono più alti tra la cittadinanza trans. Quando l’ambiente sociale e professionale è così ostile, le conseguenze sono drammatiche e la società ne è in qualche modo corresponsabile”.
Cerchiamo di chiudere con un messaggio di speranza, proprio perché il TDoR deve essere anche questo: c’è un messaggio positivo che di va di lasciare alla comunità? Come ti consoli tu nei momenti di difficoltà e sconforto?
“Quello che mi sento di dire è che queste difficoltà ci sono sempre state, ma oggi le vediamo. E questo è un dato positivo. Vuol dire che oggi stiamo iniziando a maturare una sensibilità per vederle, capirle e fare una rete di protezione che, seppur imperfetta, è lì. Non para tutte le difficoltà, ha bisogno di tanto, deve lottare quotidianamente, ma esiste, in qualche forma esiste. E le cose andranno la scelta migliore. Questo è il mio messaggio: andrà la scelta migliore. Perché ci stiamo lavorando per questo, e perché lo stiamo vedendo. Stiamo creando, con tutte le difficoltà, alleanze. Stiamo creando la comunità. Le mancanze ci sono, ma le vediamo e le stiamo affrontando. E molte persone alleate stanno facendo la stessa cosa. Quindi, quello che mi sento di dire a una persona oggi, che magari si sente spaventata, è che andrà la scelta migliore”.
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di Daniele Biaggi www.wired.it 2024-11-20 05:40:00 ,