La crisi delle banche regionali Usa, avviata 15 mesi fa con l’imprevisto crack di Silicon Valley Bank (SVB) è tutt’altro che risolta. L’esposizione creditizia al mercato immobiliare commerciale, che era e resta in forte difficoltà a causa degli elevati tassi di interesse negli Usa, continua a pesare sui bilanci. E le perdite potenziali rischiano di diventare effettive in tempi relativamente rapidi perché, come riportato da Harvard Business Review, ben 1.000 miliardi di prestiti al settore arriveranno a scadenza entro due anni.
Subito dopo il default di SVB, per scongiurare l’effetto contagio la Federal Reserve azionò un piano straordinario per erogare la liquidità alle banche in crisi. Ma il Bank Term Funding Program (BTFP) si è concluso lo scorso 11 marzo e da allora la risposta alla crisi del settore è affidata alle iniziative delle singole banche. Che si stanno muovendo seguendo due direttrici. La prima è quella delle aggregazioni. La seconda è quella, perseguibile solo quando il bilancio lo consente, di vendere ingenti stock di titoli e prestiti concessi negli ultimi dieci anni a tassi inferiori al 2% e reinvestire il ricavato in bond che oggi rendono oltre il 5%. In entrambi i casi, le ultime settimane sono state dense di novità’.
Sul versante delle aggregazioni, dopo i vari salvataggi di emergenza varati nel 2023 a seguito del crack di SVB (il principale è stato quello di First Republic Bank da parte del colosso JP Morgan) il trend è proseguito anche nel 2024 con una serie di operazioni negoziate tra le parti e senza l’intervento della Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic). Le ultime sono avvenute alla fine di luglio: Renasant Corp ha rilevato attraverso uno scambio azionario da 1,2 miliardi di dollari la più piccola The First Bancshares, mentre con modalità analoghe WesBanco ha incorporato Premier Financial in un merger da 959 milioni di dollari.
Non è chiaro se le aggregazioni siano davvero volontarie o “spintanee”, ovvero sostenute dalla moral suasion delle varie Autorità di Vigilanza americane. È certo però, secondo gli analisti finanziari, che il trend del consolidamento tra le banche regionali e community banks – con gli istituti più fragili che, pur di scongiurare un futuro rischio default, sono pronti a confluire in gruppi più grandi e con minori criticità – è destinato a persistere per mesi e per anni.
Più interessante è esaminare il secondo trend attuato per tentare il rilancio da alcune banche locali Usa, ovvero quello della cessione di una parte dell’attivo a bassa remunerazione dopo il decennio di tassi a zero e il successivo rapido rialzo pronto in chiave anti-svalutazione dalla Federal Reserve. È quello che aveva provato a fare SVB, annunciando in contemporanea un aumento di capitale per coprire le minusvalenze originate dalla cessione di mutui e bond. Aumento di capitale che aveva terrorizzato il mercato e che da allora nessuna banca Usa si è più azzardata a lanciare. Il problema che accomunava SVB a molte altre banche in crisi, escludendo i casi di mala gestio, erano le minusvalenze potenziali (stimate in circa 700 miliardi di dollari negli Usa) sul portafoglio titoli e crediti – in preponderanza mutui – accumulati nel decennio in cui i rendimenti non superavano il 2%. Vendere quei titoli per SVB, come per le altre banche, avrebbe generato un buco di bilancio tamponabile solo con un aumento di capitale.