Come saranno le città del futuro? Saranno quelle tecnologiche di vetro e acciaio? Quelle dei boschi verticali? Quelle dei “quindici minuti”? O quelle che riusciranno a essere inclusive e a ridurre le disuguaglianze? Più della metà della cittadinanza mondiale vive in contesti urbani. Si tratta di oltre quattro miliardi di persone. Secondo l’Onu, il sorpasso rispetto alle aree rurali è avvenuto per la prima volta nella storia nel 2007. E il fenomeno non accenna ad arrestarsi. A livello globale ci si sposta sempre più dalle campagne verso i grandi centri, alla ricerca di lavoro e quindi di benessere: ma un cittadino su tre vive in una baraccopoli.
Si tratta di una media: pochi in Europa, moltissimi in Africa, dove a trascorre l’esistenza nelle favelas è la maggior parte della cittadinanza, con punte che superano il 94% in Sud Sudan e toccano l’82% in Ciad. Ci sono Paesi in cui oltre il 60% della cittadinanza vive in agglomerati urbani da oltre un milione di abitanti: gli Emirati Arabi Uniti (66%), il Giappone (65%) e, per quanto lo spazio non manchi di certo, l’Australia (62%). Tante le megalopoli da oltre dieci milioni di abitanti.
Stimoli contraddittori
“Di cosa hanno bisogno gli esseri umani che abitano in città come Milano, New York, Nairobi ma anche in piccoli centri come Piacenza? Essenzialmente, di servizi sportivi ed economici” dice a Wired Giovanni Semi, docente di Sociologia urbana all’università di Torino. “Parliamo, per esempio, di piscine pubbliche, che sono scomparse dai radar ma restano una delle politiche più intelligenti e utili alla cittadinanza. Costosa, anche, e questo forse è il problema principale. I benefici, però, sono tangibili: una piscina serve ad aiutare bambini, adulti e anziani nella rieducazione fisica e in generale è uno sfogo molto importante per popolazioni che tendono a fare poco movimento”. In sostanza, prosegue il professore, “una rete di servizi pubblici di qualità produce ricadute a tutti i livelli”.
Secondo Semi, si rischia di perdere di vista la bussola della progettualità: “Guardando al caso italiano, fino agli anni Sessanta e Settanta le nostre città erano abbastanza pianificate, sviluppate secondo delle linee di indirizzo generali determinate tramite lo strumento del piano regolatore. Dagli anni Ottanta ai giorni nostri si è teso, invece, a procedere per piccoli interventi e singoli progetti, quasi per punti. Si è persa un po’ l’idea forte del controllo dello sviluppo urbano; le amministrazioni pubbliche, in particolare, ormai mirano sostanzialmente a favorire l’ingresso di nuovi investimenti e a preparare il terreno per questi”.
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di Antonio Piemontese www.wired.it 2023-10-21 04:50:00 ,