Il prodotto interno lordo dell’Unione europea cresce meno delle previsioni e di recente il commissario all’Economia Paolo Gentiloni ha rimarcato il peso dei danni causati dalla crisi del clima sulle future previsioni di crescita dell’Europa. Il riferimento è andato, in particolare, alla Grecia, colpita quest’estate prima da incendi devastanti e dalla tempesta Daniel, che ha provocato gravi inondazioni in Libia. Notizie che dovrebbero minare l’ottimismo di politici e media verso la cosiddetta green economy, che ritiene compatibili crescita del pil e diminuzione delle emissioni di gas serra.
Traguardo lontano
Tuttavia, vi sono anche voci molto critiche verso questi assunti, come quelle di Jefim Vogeld del Sustainability Research Institute dell’Università di Leeds e di Jason Hickel dell’Institute for Environmental Science and Technology dell’Università Autonoma di Barcellona, autori di uno studio apparso sull’ultimo numero della prestigiosa rivista Lancet Planetary Health: La ‘crescita verde’ sta avvenendo davvero?, è la domanda da cui sono partiti i due autori. L’indagine ha preso in considerazione 36 Stati che perseguono il cosiddetto disaccoppiamento, ossia una riduzione nella produzione di CO2 che deriva dal settore del commercio e dei trasporti in parallelo a una crescita del pil. Di questi 11 hanno raggiunto il “disaccoppiamento assoluto” ovvero hanno mantenuto costanti la crescita del pil e la riduzione delle emissioni di gas serra nel periodo 2013-2019: Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Svezia e Regno Unito.
Tuttavia, è la conclusione dei ricercatori, questi 11 Stati raggiungeranno gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sottoscritti nel 2016 alla Conferenza del clima delle Nazioni Unite tra 200 anni. Una media tra i 73 anni del Regno Unito e i 369 del Belgio. “Definire ‘crescita verde’ questa insufficiente riduzione delle emissioni è ingannevole. In realtà, è green washing poiché non c’è nulla di ‘verde’ nella crescita economica dei Paesi ad alto reddito, semmai si tratta di una ricetta per il collasso del clima e per una sempre maggiore ingiustizia climatica”, sostiene Vogel.
“Come mostra il 6° Rapporto dell’International Panel on Climate Change [Ipcc, un gruppo di esperti dell’Onu, ndr], le risorse finanziare sono utilizzate più per investire nelle cause del cambiamento climatico che nella sua soluzione. Come può ancora succedere questo, quando il mondo sta vivendo gli effetti del cambiamento del clima?”. Questa la domanda dell’attivista climatica Vanessa Nakate nella sua introduzione al rapporto di ActionAid How the Finance Flows che traccia i flussi finanziari dalle banche ai combustibili fossili e all’agricoltura industriale nei 134 Paesi del Sud globale. A sette anni dalla Cop21, le principali banche mondiali, pubbliche e private, tra cui Hsbc, Bank of America, Jp Morgan Chase, Citigroup, Barclays e l’Industrial and commercial Bank of China hanno investito 3.200 miliardi di dollari nelle energie fossili e 370 miliardi di dollari nell’agricoltura industriale.
Inversione a U
Un’analisi pubblicata su Science, condotta sui report di sostenibilità 2021 di cento tra le maggiori multinazionali, rileva che due terzi delle compagnie dichiarano, attraverso lo slogan del tipo zero-net, di adottare misure di riduzione del danno ecologico che deriva dalla loro attività. Tuttavia, se nove su dieci tra le prime aziende della classifica di Forbes 2021 dichiarano di implementare misure di ripristino ecologico, vi sono gravi carenze nel dimostrare quanto siano effettive. “Maggior rigore, coerenza, trasparenza e responsabilità sono necessarie per assicurare che tali misure siano quantificabili, apportino benefici ed equità”, sostengono Timothy Lamont del Lancaster Environment Centre e i colleghi, autori del policy forum. Un terzo dei report, scrivono, non sono in grado di definire l’entità di nessuno dei progetti di riparazione ecologica adottati, l’80% non fornisce i dati finanziari di tali iniziative, più del 90% non riporta un singolo risultato in termini ecologici e nessuno descrive, né quantifica, l’impatto sugli attori locali. Secondo gli autori, il coinvolgimento delle aziende avrà un ruolo importante nella tutela dell’ambiente dai danni legati alla produzione, ma dovrà essere la politica a far sì che sia in positivo.
I finanziamenti pubblici, afferma il report di ActionAid, possono contribuire molto alla soluzione del cambiamento climatico, ma rappresentano anche una grossa parte del problema se orientati, come ora, all’industria fossile e agricola. Intanto, il rapporto dell’Ipcc ammonisce: “La società deve agire velocemente, o perderemo quest’unica opportunità per garantire un futuro sicuro e sostenibile per tutti”.
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di Federica Lavarini www.wired.it 2023-09-18 04:50:00 ,