di Antonio Piemontese, Luca Zorloni
Tuttavia l’intensità di accordi laterali, pompati dalla presidenza britannica all’avvio di Cop quasi per assicurare al mondo fuori dal centro congressi di Glasgow che dentro si stesse concludendo qualcosa, quasi una febbre da annunci, stride con il risultato finale. Ad ogni modo queste iniziative parallele possono dare i loro frutti, anche per creare alleanze in vista delle prossime conferenze. Come la Beyond oil and gas alliance, un forum internazionale guidato da Danimarca e Costa Rica per mettere fine alle fonti fossili, partecipata da undici componenti tra cui l’Italia (con il grado di impegno più basso, ossia amico). O il fondo da 24 miliardi di dollari per lo stop al finanziamento di ricerca ed estrazione di fonti fossili all’estero, siglato anche dall’Italia.
L’accordo stabilisce che ogni Paese dovrà fornire alle Nazioni unite i suoi piani sul clima per cicli quinquennali. Però manca un impegno stringete. Il patto di Glasgow si limita a “incoraggiare” a presentare nel 2025 il pacchetto di impegni per ridurre le emissioni e centrare gli obiettivi degli accordi di Parigi, detti contributi determinati a livello nazionale (Nationally determined contributions, Ndc) del 2035, nel 2030 quelli del 2040. Troppo poco per chi si aspettava tabelle stringenti.
Non tutto si conclude a Glasgow. Entro l’anno prossimo i Paesi che ancora non l’hanno fatto devono consegnare i loro piani nazionali. Poi parte un programma di lavoro per accelerare il taglio delle emissioni, che presenterà i suoi risultati alla Cop27, ospitata dall’Egitto a Sharm-el-Sheik, e una commissione annuale di verifica delle strategie sul clima dei vari Paesi.
10. Il mondo che esce da Cop26
Se c’era bisogno di un’altra prova del fatto che gli equilibri mondiali sono cambiati, questa è Cop26. La mossa di India e Cina cambia in poche ore un testo sulle cui virgole si lavorava da giorni, mettendo la presidenza inglese con le spalle al muro, al punto che Sharma ha chiesto scusa alle altre delegazioni e sollevato lo scontento di vari Paesi, come la Svizzera e il Messico.
L’altro colpo di scena ha avuto sempre Pechino al centro e riguarda l’intesa di cooperazione sul clima con gli Stati Uniti. Un segnale di disgelo in vista del prossimo colloquio, virtuale, tra i rispettivi presidenti, Xi Jinping e Joe Biden, e la prima presa di posizione pubblica della Cina, molto attiva nelle stanze dei negoziati ma poco visibile, complice la pesante assenza proprio di Xi. Prima prova dell’efficacia di questo asse è stato proprio il blitz sul phase down dal carbone.
Il giorno successivo all’accordo Stati Uniti-Cina, il commissario europeo Timmermans ha voluto mettere i puntini sulle i: loro hanno fatto un accordo, noi abbiamo una legge sul clima (il pacchetto Fit for 55, che ambisce a ridurre del 55% le emissioni dei Paesi dell’Unione entro il 2030). Tuttavia il Vecchio continente, che negozia a nome dei 27 (per cui prima di ogni trattativa, i rappresentanti dei Paesi si ritrovano per definire la linea comune), è apparso spompato. E diviso. La pillola amara ingoiata da Timmermans sul voto finale (non mi piace, ma lo appoggio) è il segnale che Bruxelles non ha saputo qualificarsi come un alleato di peso per queste contrattazioni, facendo valere le sue ragioni. Per Jennifer Tollmann, consulente politica del think tank E3G, “a dispetto dell’impegno molto ambizioso, l’Unione europea ha faticato a costruire ponti con gli Stati Uniti, la Cina e i piccoli Stati insulari oltre le divisioni nord-sud”. Il risultato si è visto. Se qualcosa deve cambiare alla prossima conferenza sul clima, è ora di mettersi al lavoro.
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www.wired.it
2021-11-14 00:53:21