Innanzitutto, servono delle celle elettrochimiche: sono dei dispositivi che permettono di convertire l’energia elettrica in energia chimica, formati da un elettrolita (una soluzione) e due elettrodi (dei conduttori elettrici). L’acqua oceanica viene consegnata a un primo gruppo di celle che la “acidificano” con il rilascio di protoni, i quali permettono la conversione in CO2 dei bicarbonati inorganici che vi sono disciolti. La CO2 viene rimossa, mentre l’acqua viene fatta passare per una seconda serie di celle a tensione elettrica invertita, in modo da recuperare i protoni fornitigli nel primo passaggio. Così, l’acqua acida diventa alcalina e viene infine rilasciata nell’oceano. Periodicamente, i ruoli delle due celle si invertono per consentire agli elettrodi del primo gruppo di recuperare protoni.
Secondo i ricercatori del Mit, la rimozione della CO2 e la reiniezione di acqua alcalina potrebbe iniziare a invertire l’acidificazione di porzioni di oceano, a beneficio degli ecosistemi. Gli studiosi sostengono che il loro processo sia scalabile e integrabile in tutti quei sistemi che hanno già a che fare con l’acqua marina, come i dissalatori, le piattaforme offshore per l’estrazione petrolifera, gli allevamenti di pesci e le navi (andando a compensare le grandi emissioni del trasporto marittimo).
Stoccare la CO2 nel calcestruzzo
Rimane il problema, tuttavia, di cosa farne di tutta l’anidride carbonica catturata. La si potrebbe confinare proprio al di sotto dei fondali oceanici, ma ci sono delle soluzioni più efficienti. Heirloom Carbon Technologies, una startup californiana, vuole ad esempio riutilizzare la CO2 sequestrata per migliorare il calcestruzzo. Il vantaggio è doppio: si recupera un gas altrimenti destinato sottoterra, e si riduce l’impronta carbonica di un materiale usatissimo nell’edilizia – e dunque fondamentale per l’umanità – ma responsabile dell’8 % delle emissioni globali.
Come prima cosa, Heirloom riscalda ad alte temperature il calcare macinato per far sì che si rompa e rilasci anidride carbonica pura, facilmente catturabile. Quello che rimane sono dei minerali ossidi altamente reattivi, smaniosi di legarsi alla CO2. Vengono allora sistemati su dei grandi vassoi, impilati in verticale ed esposti all’aria aperta perché agiscano come delle spugne, assorbendo la CO2 – ci vogliono due settimane perché se ne riempiano, invece di un anno, grazie alla tecnologia della startup – e “trasformandosi” in carbonato di calcio, il componente principale del calcare. Da qui, il processo ricomincia: si rompe di nuovo il calcare, si ricattura la CO2, si riprendono gli scarti e li si rimette all’aria. È possibile ripartire una decina di volte, prima che il materiale si degradi troppo.
Infine, la CO2 prelevata da Heirloom viene mandata a CarbonCure Technologies, un’azienda canadese specializzata, che la trasforma in un minerale che rafforza il calcestruzzo. In questo modo si elimina la necessità di cemento, un “ingrediente” – un legante idraulico, per la precisione – del calcestruzzo che serve proprio a renderlo più solido. Il cemento è tanto utile quanto problematico, perché è il componente del calcestruzzo più inquinante di tutti: per produrre una tonnellata di cemento si emette una tonnellata di CO2.
Decarbonizzare il settore dei materiali da costruzione è fondamentale. Da oggi al 2050 la domanda mondiale di cemento è prevista aumentare del 48 %, passando da 4,2 miliardi di tonnellate a 6,2 miliardi. Ma per rispettare l’accordo di Parigi e mantenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5 °C, l’industria del calcestruzzo dovrà ridurre le sue emissioni del 16 % al 2030, e del 100 % al 2050. Riciclare la CO2 potrebbe aiutare.
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di Marco Dell’Aguzzo www.wired.it 2023-04-02 16:00:00 ,