Com’è triste Joe Biden soltanto un anno dopo

Com’è triste Joe Biden soltanto un anno dopo

Com’è triste Joe Biden soltanto un anno dopo



C’è una data cerchiata in rosso nelle agende dei più stretti collaboratori di Joe Biden ed è quella del 2 novembre, quando gli elettori della Virginia e del New Jersey (un anno dopo la vittoria nelle presidenziali) sono chiamati a scegliere il loro nuovo Governatore. Dopo quel voto si potrà forse capire meglio se il presidente democratico – i cui indici di gradimento nei sondaggi sono in costante calo – potrà rialzare (politicamente) la testa; ed evitare che da qui alle elezioni di novembre 2022 (rinnovo dell’intera Camera dei Rappresentanti e di un terzo del Senato) lui e il suo partito vengano trascinati in una sconfitta che potrebbe avere conseguenze dirette anche sulla Casa Bianca 2024.
A oggi i dati parlano chiaro. Secondo una media compilata dagli analisti di sondaggi del sito FiveThirtyEight, l’indice di approvazione di Biden è al 43,6 %, contro il 50,6 di chi disapprova il suo lavoro allo Studio Ovale. Numeri ancora al di sopra del record negativo di Donald Trump (36,4) ma che rappresentano un forte calo rispetto ai consensi che Biden aveva all’inizio dell’estate. Fino a giugno una solida maggioranza (56 %) degli americani approvava il suo operato, ma quel numero ha iniziato a crollare alla fine dell’estate, scendendo al 49 % di agosto, al 44 % di settembre, fino all’attuale 42 % che gli assegnano i rilevamenti del Gallup Presidential Approval Center.

Si tratta del dato più basso registrato da quando si è insediato alla Casa Bianca ed il secondo nella classifica negativa di qualsiasi presidente che Gallup abbia misurato (dopo nove mesi da inizio mandato) nell’ultimo mezzo secolo. Solo Trump ha fatto peggio di lui (a fine ottobre 2017 aveva il 37 %), dati decisamente migliori erano quelli di Barack Obama (52), George W. Bush (88 %, ma è un numero anomalo, conseguenza dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001), Bill Clinton (47), George H.W. Bush (70), Ronald Reagan (53) e Jimmy Carter (54).
Le ragioni del declino di Biden (nei sondaggi) sono abbastanza chiare e sono dovute ad un insieme di eventi che si sono concatenati tra loro: il disastroso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, l’aumento dei casi di Covid-19 causati dalla variante Delta e dalle resistenze alla campagna di vaccinazione (negli Stati Uniti i vaccinati sono il 57,7 % contro l’82,3 dell’Italia), i problemi nella catena di approvvigionamento e di distribuzione di beni di prima necessità (in alcuni casi anche alimentari) e lo scontro politico che vede coinvolta la Casa Bianca su due fronti: quello, scontato, con il partito repubblicano (e l’ombra di The Donald) e quello, interno, tra le due anime (moderati e liberal-socialisti) dei democratici al Congresso.

Alcuni di questi punti – ad esempio l’insorgere della variante Delta e il boicottaggio del vaccino in molti Stati (governati dai repubblicani) – non possono essere addebitati in toto a Biden. Se però sei alla Casa Bianca e se a inizio del mandato hai promesso che entro ottobre il 75 % degli americani sarebbe stato vaccinato, è evidente come il “Commander in Chief” democratico sia oggi costretto a prendersi la colpa di ciò che non ha funzionato.
Le elezioni in Virginia arrivano per i democratici in un momento importante anche per l’economia, con l’aumento dei prezzi al consumo e con le lotte intestine del partito democratico che stanno bloccando l’ambizioso programma legislativo del presidente Usa. Sono due punti collegati tra loro da un numero (ancora in discussione) di miliardi di dollari e da due protagonisti: i senatori democratici Kyrsten Sinema e Joe Manchin.
Sono loro, la senatrice dell’Arizona al suo primo mandato (lo Stato del Sud e della frontiera con il Messico era da decenni appannaggio totale dei repubblicani) e il 74enne navigato politico del West Virginia la spina nel fianco di Biden e i catalizzatori delle critiche dei liberal. Votando (o anche semplicemente annunciando di votare) contro le proposte della Casa Bianca e dei leader democratici al Congresso, Sinema e Manchin hanno fatto saltare la possibile, risicata, maggioranza al Senato (democratici e repubblicani hanno ognuno 50 seggi con la vice-presidente Kamala Harris teoricamente decisiva) diventando una vera e propria quinta colonna del Grand Old Party. Partito repubblicano ormai solidamente in mano agli uomini di Trump, dove anche i senatori più critici verso l’ex presidente rispettano sempre gli ordini di scuderia.

Il nodo principale è quello del pacchetto economico sulle infrastrutture, centrale nel programma della Casa Bianca e acuito dall’attuale situazione. Le immagini di Long Beach (Los Angeles), il principale scalo merci di tutta la West Coast trasformato in un immenso parcheggio di navi “in rada” e di enormi porta-container costretti ad attendere al largo dell’Oceano Pacifico il loro turno per attraccare, scaricare o caricare, hanno fatto il giro dell’America. E durante un intervento televisivo lo stesso Joe Biden ha (un po’ incautamente) detto di essere favorevole «a utilizzare la Guardia Nazionale» se il problema dello smaltimento degli arretrati e delle consegne non venisse risolto in tempi stretti. Suscitando gli attacchi del Gop e molte critiche democratiche.

La promessa di Biden è quella di un pacchetto di spese interne con quasi due mila miliardi di dollari in investimenti sociali che rappresentano il più grande programma di “guerra alla povertà” dai tempi della “Great Society” del presidente Lyndon Johnson negli anni Sessanta. Promessa che al momento il presidente non ha potuto mantenere anche per l’opposizione di Sinema e Manchin. Secondo Ian Bremmer – uno dei più seguiti analisti politici degli Stati Uniti – le divisioni interne al partito democratico «sono una caratteristica fissa, non un “bug” momentaneo», con i diversi protagonisti progressisti e moderati che «devono dimostrare al proprio elettorato di riferimento» di essere in grado di condizionare le scelte della Casa Bianca. Secondo Bremmer la sfida più complicata per Biden è quella posta da Kyrsten Sinema, perché la senatrice dell’Arizona «sente di non avere ottenuto alcun credito presso i suoi elettori e non si sente rispettata dalla Casa Bianca di Biden» a causa della sua giovane età (40 anni) e del suo primo mandato al Senato.
Tra gli elettori democratici il pessimismo è sempre più diffuso ed è allo stesso tempo una causa e un effetto del difficile momento di Biden. Nonostante sia scomparso dalle notizie di prima pagina (e non solo), il caotico ritiro dei militari Usa dall’Afghanistan è ancora un’ombra pesante sull’attuale amministrazione e ne condiziona l’intera politica estera dal Medio Oriente alla Cina. Sono passati due mesi ma per l’elettore democratico medio (piuttosto attivo sui social network) l’Afghanistan è la «cosa negativa più recente» di Biden.

Paul Berman – noto analista politico, saggista e storico democratico – mette in guardia «da un futuro già iniziato, con milioni di rifugiati e una crisi umanitaria che sarà disastrosa». Dopo il ritiro la maggioranza degli elettori ha regolarmente bollato (in diversi sondaggi) la Casa Bianca come “incompetente”, aggiungendo anche di aver adesso “meno fiducia” nella capacità dell’amministrazione di affrontare gli altri urgenti problemi.

Più del 60 % degli elettori ritiene che Biden sia responsabile dell’aumento dell’inflazione (secondo un recente sondaggio Morning Consult/Politico) e il 52 % si aspetta che l’economia peggiori nei prossimi dodici mesi. Per un altro sondaggio (Cnbc) l’inflazione è ora alla pari con il coronavirus come il problema più importante per gli Stati Uniti, e una grande maggioranza di americani dice di «aver sofferto personalmente carenze e aumento dei prezzi». Sono dati che denotano un’inversione rispetto a quelli pre-elettorali del 2020, quando gli elettori intervistati sostenevano che la lotta al Covid-19 era molto più importante dei problemi economici.

Il più grave pericolo per i democratici nell’attuale calo dell’indice di approvazione di Biden riguarda i candidati del suo partito nelle elezioni di midterm di novembre 2022, con i repubblicani che sembrano in grado di riconquistare il Senato (gli basta strappare ai democratici un seggio) e forse – grazie alle leggi ad hoc in diversi Stati che penalizzano l’elettorato afro-americano e le minoranze in genere – anche la Camera dei Rappresentanti. Se l’indice di approvazione di un presidente è sotto il 50 %, il suo partito perde in media 37 seggi alla Camera. Nel 2018, quando l’indice di approvazione di Trump era attorno al 42 % i repubblicani hanno perso 40 seggi (e la maggioranza) alla Camera. Nel 2010, l’indice di approvazione di Obama era sceso al 45 e i democratici hanno perso 63 seggi (e la maggioranza). Nel 1994, l’indice di gradimento di Clinton era del 46 e i democratici persero 53 seggi (e la maggioranza). In attesa del 2022 gli occhi democratici sono puntati ora su Virginia e New Jersey.  



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di Alberto Flores D’Arcais
espresso.repubblica.it
2021-11-02 10:49:00 ,

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