Reti neurali? Intelligenze artificiali? Chip neuromorfici? Si può fare di meglio. Invece di imitare il funzionamento del cervello umano nei nostri computer, perché non imitare i computer con i nostri cervelli. Parliamo di biocomputer, o come la chiamano alcuni esperti Oi, “intelligenze organoidi” (o magari organoidali), un nuovo approccio che fonde neuroscienze e computer science e sfruttare così la plasticità, la memoria e l’immensa capacità di calcolo del nostro “hardware” biologico, per potenziale le capacità dei calcolatori elettronici. Non si tratta di una novità, almeno in senso stretto (c’è chi ci ha provato, con successo, già una ventina di anni fa), ma un nuovo studio appena pubblicato su Nature Electronics descrive il più avanzato tentativo mai realizzato in questo campo: un dispositivo che combina organoidi cerebrali (microcervelli artificiali prodotti a partire da cellule staminali) e chip elettronici, che ha dimostrato di poter reggere il passo con le più evolute intelligenze artificiali tradizionali.
Seupercomputer biologici
Il prototipo è stato realizzato da un team di ricercatori della Indiana University di Bloomington guidato dall’esperto di ingegneria dei sistemi intelligenti Feng Guo, ed è la prima sperimentazione pratica di un approccio che i suoi ideatori hanno deciso di chiamare “Brainoware”. Lo scopo dei ricercatori è quello di sfruttare le potenzialità dei neuroni umani, chip biologici capaci di funzionare contemporaneamente sia da banchi di memoria che da microprocessori, integrandoli all’interno di un hardware elettronico responsabile di inviare gli input e di ricevere e interpretare gli output da loro elaborati.
Nel cervello umano sono concentrati qualcosa come 86miliardi di neuroni in costante comunicazione reciproca, connessi tra loro da circa un biliardo di sinapsi. La potenza di calcolo di questo organo per ora è ancora del tutto inavvicinabile con tecnologie elettroniche: il tentativo più ambizioso lo ha fatto nel 2013 il supercomputer K dell’Istituto di scienze computazionali avanzate Riken, in Giappone, e con i suoi 82mila processori e un petabyte di memoria ha impiegato 40 minuti per simulare circa il 2% delle attività che svolge il cervello umano in un secondo.
Con tanta potenza di calcolo, anche una porzioncina microscopica di tessuto cerebrale potrebbe rivelarsi estremamente utile e potente come hardware per un computer. E fortunatamente, oggi è facile procurarsene una, grazie agli sviluppi che ha avuto negli ultimi anni la tecnologia degli organoidi, piccoli organi artificiali che vengono creati a partire da cellule staminali, e indotti ad autorganizzarsi in strutture tridimensionali più simili possibile ad un organo umano in miniatura. Di norma, vengono utilizzati per studiare in vitro lo sviluppo e il funzionamento degli organi umani. Ma nulla vieta di collegarli a un computer, e vedere cosa accade. Ed è esattamente quello che hanno fatto i ricercatori americani.
Come funziona Brainoware
Il dispositivo è composto da un organoide formato da cellule cerebrali a vari stadi di sviluppo, collegate con degli elettrodi ad un computer tradizionale, responsabile della gestione di input e output. L’apparato è stato sviluppato utilizzando un protocollo di machine learning noto come reservoir computing, in cui le informazioni vengono elaborate da un reservoir (l’organoide in questo caso) che viene addestrato in modo non supervisionato, cioè senza nessuno che gli dica se quello che fa è giusto o sbagliato, mentre i suoi output vengono interpretati da un algoritmo addestrato sotto la supervisione degli sviluppatori. Praticamente, il minicervello biologico viene lasciato libero di cambiare i propri stati interni e le connessioni tra neuroni in funzione degli input elettrici che riceve, senza che nessuno intervenga in questo processo, mentre un hardware elettronico legge i dati in uscita e viene addestrato per interpretarli ed effettuare previsioni e classificazioni su di essi.
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di Simone Valesini www.wired.it 2023-12-18 06:00:00 ,