Il mare che bagna Trieste, Ancona, Bari, Fiume, Zara e Spalato è in pericolo. Il rischio desertificazione incombe e anche gli ultimi monitoraggi non sono affatto confortanti. Il 75% delle specie studiate nel Mediterraneo sono pescate a un ritmo maggiore rispetto alla capacità di riproduzione. I dati pubblicati nel Rapporto biennale della Fao The State of the Mediterranean and Black Sea fisheries 2020 lo indicano chiaramente, specie per specie. Lo studio monitora le acque dei due mari, suddivise in settori e l’Adriatico ne racchiude due (settentrionale e meridionale). Qui, gli unici pesci destinati all’alimentazione umana che riescono ancora a mantenersi in equilibrio sono le sogliole (indice 1,02) e gli unici molluschi le seppie (indice 0,89). L’indice è il rapporto tra pesce pescato e incremento generato dalla riproduzione naturale e 1 è il punto di equilibrio: significa che la massa del pesce pescato corrisponde alla quantità di nuovo pesce. Le specie con indice maggiore sono sovrapescate e perciò in diminuzione. E in Adriatico sono quasi tutte: gamberetti (3,34) sardine (3,23) e naselli (2,78) sono pescati tre volte tanto rispetto alla capacità naturale di rigenerarsi. Ma anche acciughe (1,69), scampi (1,58) e triglie (1,11) non se la passano molto bene.
Cosimo Solidoro, direttore della sezione oceanografia dell’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale (OGS), che ha sede a Trieste, spiega a Green&Blue lo stato dell’arte. “In tutto l’Adriatico alcune stime quantificano la diminuzione della biomassa pescata rispetto a 35 anni fa: -70%”. Un’enormità. Il depauperamento delle risorse ittiche è dovuto a una serie di concause: impoverimento della base alimentare, nuove specie invasive e sovrapesca sono le principali”. Un’altra causa è la riduzione del livello trofico delle acque: “il bando del fosforo dai prodotti detergenti, per esempio, ha ridotto nutrienti e clorofilla”. La questione è più complessa di quanto possa sembrare: “sul numero di pesci influiscono anche fattori come l’aumento dell’acidificazione dovuta all’incremento della CO2 in acqua, la diminuzione del Ph, il riscaldamento dell’acqua, la persistenza delle ondate di calore che cambiano la temperatura sempre più in profondità”. Per quantificare uno di questi problemi, basti ricordare che il Mediterraneo si sta riscaldando del 20% più velocemente rispetto al resto del globo. E poi ci sono le specie invasive che attraversano il Canale di Suez e risalgono il Mediterraneo: dal barracuda al pesce flauto, al velenosissimo pesce palla.
L’intervista
Mediterraneo come un mare tropicale: le specie alloctone sono ormai la maggioranza
di
Giuliano Aluffi
“Anche il plancton si sta riducendo”, ricorda Solidoro. “È alla base della catena alimentare della fauna ittica ma i pesci, da qualche anno, hanno alcuni competitori naturali che lo divorano, come le noci di mare”, specie proveniente dall’Oceano Atlantico che ha colonizzato il Mediterraneo, stabilendosi nelle acque poco profonde del nord Adriatico.
Per ricostruire gli stock serve tempo e attenzione. Certo, ridurre la pressione della pesca gioverebbe, e il ruolo delle riserve marine è fondamentale: “in tutto il Mediterraneo solo l’1% delle aree è protetto integralmente, una percentuale non sufficiente. Occorre moltiplicare questa percentuale perché la conservazione influisce positivamente sulla biodiversità”, suggerisce Solidoro. Studi scientifici hanno accertato gli effetti benefici delle aree tutelate: “più pesci e più grandi, e l’effetto si espande anche attorno alle zone protette”. Perciò sarebbe utile realizzare tante piccole aree per formare una rete e salvare la vita marina.
Biodiversità
Nell’Adriatico un ‘giardino’ di spugne. “Le coltiveremo, senza di loro il mare soffre”
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Andrea Barchiesi
Ricercatori dei sei Paesi che si affacciano sull’Adriatico – Italia, Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Albania – collaborano per conoscere i problemi ecologici del mare lungo e stretto che unisce il Gargano all’Istria, le lagune di Venezia e Grado alla baia di Valona. Spesso, però, il problema non è la conoscenza, ma la gestione comune di un territorio che non può avere confini. Fao e Unione europea spingono per una politica sulla pesca condivisa e internazionale e, dopo decenni di tentativi, qualche risultato sembra arrivare.
L’area di restrizione della pesca (Fra, Fishery Restricted Area) istituita nel 2017 in corrispondenza della fossa Jabuka/Pomo, nell’Adriatico centrale tra l’Abruzzo e le isole della Dalmazia, è considerata un esempio di buone pratiche nella cooperazione transnazionale e nell’attuazione delle misure di protezione. La gestiscono Italia e Croazia con tre obiettivi: contribuire alla ricostituzione degli stock ittici nel mare Adriatico attraverso la protezione degli habitat essenziali delle specie; proteggere gli ecosistemi marini vulnerabili; aumentare la densità degli organismi in termini di biomassa e abbondanza.
Le prove scientifiche raccolte nel biennio 2018-2020 sono promettenti e mostrano una maggiore abbondanza e densità delle principali specie commerciali (nasello europeo, scampo e gambero rosa di acque profonde, per esempio) all’interno della Fra. Sembra confermato anche un possibile effetto spillover, ovvero il movimento dei pesci adulti dall’area protetta alle acque adiacenti.
Per evitare che l’Adriatico si trasformi in un deserto d’acqua occorre dunque agire in fretta. Da tremila anni il mare sostiene economie e popolazioni delle due sponde, ma ora le minacce sono serie. Solo azioni concordate e durature potranno salvare la grande biodiversità nascosta alla vista, ma essenziale per trovare nuovi equilibri ambientali e per la sopravvivenza stessa dell’uomo.