di Gianluca Schinaia
I green claim, gli spot sulle presunte qualità sostenibili di un prodotto o di un’azienda, non potranno più essere “vaghi, generici o esagerati”. È la rivoluzione giurisprudenziale innescata in questi ultimi anni in Italia da decisioni di istituti e authority, esplosa con la prima sentenza di un tribunale civile per greenwashing: è successo a Gorizia, a novembre scorso.
Ma è solo l’inizio, come spiega a Wired Sara Valaguzza, avvocata esperta di tematiche ambientali e docente di diritto dell’ambiente all’Università degli Studi di Milano: “Il ruolo del giudice sarà sempre più centrale nell’interpretazione evolutiva delle norme sulla tutela ambientale e sui casi di greenwashing: aumenteranno questo tipo di istanze da parte di cittadini e aziende, e le sentenze a loro favore”. È una tendenza internazionale: particolarmente cresciuta in questi ultimi mesi in Europa e che adesso tocca anche l’Italia. Un’azienda deve provare scientificamente ciò che proclama in uno spot commerciale quando descrive le proprie virtù di sostenibilità.
Il greenwashing e il fenomeno dei green claim
Termine inglese ormai sempre più familiare, il greenwashing è l’uso distorto della sostenibilità ambientale a fini promozionali. Questo avviene attraverso i green claim aziendali, ovvero i messaggi pubblicitari di un brand che spesso non rispecchiano la realtà oppure dove le informazioni riguardo la loro proclamata sostenibilità non risultano verificabili e attendibili. “Per questo, varie legislazioni tentano di proteggere i consumatori e di promuovere pratiche di green marketing corrette”, spiega l’avvocata.
A gennaio dell’anno scorso, la Commissione europea ha pubblicato un report sullo screening dei siti web alla ricerca di messaggi promozionali relativi a profili di sostenibilità dei prodotti e servizi pubblicizzati. Il risultato è stato che oltre la metà dei green claim esaminati ha presentato ‘sintomi’ di illiceità. Di questi, il 40% era basato su affermazioni vaghe e generiche, mentre il restante 60% non permetteva di accedere a dati e informazioni che dimostrassero la fondatezza di quanto raccontato negli spot pubblicitari.
Alcantara-Miko: la prima sentenza di greenwashing in Italia
Il 25 novembre del 2021 il Tribunale di Gorizia ha accolto il ricorso presentato dalla società Alcantara nei confronti dell’azienda Miko, che commercializza il materiale Dinamica, microfibra dall’aspetto simile al camoscio impiegata nel settore dell’arredamento, della moda e soprattutto delle automobili. La decisione ha riconosciuto che le espressioni “scelta naturale”, “amica dell’ambiente”, “la prima e unica microfibra che garantisce eco-sostenibilità durante tutto il ciclo produttivo”, “microfibra ecologica” erano pubblicità ingannevole.
A proposito della sentenza, Miko ha rilasciato a Wired una nota in cui precisa che“alcune di queste espressioni sono state utilizzate in passato per descrivere il prodotto Dinamica di Miko. L’ordinanza, tuttavia, non riguarda il valore del prodotto stesso. Miko respinge con forza l’accusa di “ambientalismo di facciata”: l’azienda produce Dinamica dal 1997, un prodotto innovativo il cui valore è da tempo riconosciuto da clienti internazionali di vari settori industriali”.
Cosa cambia in Italia con l’ordinanza di Gorizia
Nell’ordinanza, il Tribunale di Gorizia cita l’articolo 12 del Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale, secondo cui “la comunicazione commerciale che dichiari o evochi benefici di carattere ambientale o ecologico deve basarsi su dati veritieri, pertinenti e scientificamente verificabili”. Un punto interessante secondo Valaguzza perché con questo riferimento al Codice il giudice tutela non solo il cittadino ma anche le altre imprese.
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www.wired.it
2022-02-05 06:00:00