I motivi per cui si rischia un Mario Draghi premier forever

I motivi per cui si rischia un Mario Draghi premier forever

I motivi per cui si rischia un Mario Draghi premier forever



Tra le ragioni del partito “Draghi premier forever” spiccano anche certi numeretti dell’economia con i quali bisognerà misurarsi. Perché inevitabilmente condizioneranno l’agenda di governo degli anni a venire. È la questione che si è posto Giancarlo Giorgetti parlando con La Stampa: vorrebbe Mario Draghi al Quirinale, ma poi, si chiede, chi si intesterebbe Pnrr e politica economica, e quale? Appunto.

Il primo scoglio riguarda dunque il Pnrr, il piano di investimenti studiato per rimettere in moto l’economia europea dopo anni di Covid-19. All’Italia, come si sa, andranno più soldi (e quindi più vigilanza) di tutti. Incassata a luglio la prima rata di 25 miliardi, via via arriveranno le altre, una ogni sei mesi fino al 2026, per raggiungere i 191,5 miliardi che l’Ue ci ha destinato. A ogni tranche corrispondono però alcune condizioni da soddisfare, sia sulla destinazione dei fondi sia sulla definizione dei progetti: niente rispetto dei vincoli, niente finanziamento. Perso, non si recupera più. Amen.

Se il 2026 non è lontanissimo, è vicinissimo il 2023, quando torneranno in vita i parametri di Maastricht – che a Romano Prodi sembravano «stupidi» già vent’anni fa – congelati causa pandemia fino al ’22. A quel punto potrebbe cambiare anche la strategia della Bce, fino addirittura ad azzerare gli acquisti di titoli di Stato. Con le immaginabili conseguenze sul debito pubblico italiano che è oltre quota 160% sul pil.

Non è finita. Il calendario è zeppo di impegni: spendere presto e bene i soldi del Pnrr; approvare, come chiede il Piano, le riforme di fisco, giustizia e burocrazia delle quali si ciancia da anni; e poi alimentare lo sviluppo economico, unica arma per ridurre l’incidenza del debito senza dolori. Le previsioni sono ottime: il 2021 dovrebbe chiudersi, secondo Banca d’Italia, con una crescita vicina al 6 % e il ’22 marciare a più 4. Bene, ma alla fine sarà stato appena tappato il buco da virus. E dopo? Come evitare la dannazione dello zero virgola?

Il problema non è solo italiano: anche la Ue ha lanciato l’allarme per l’aumento sconsiderato dei costi delle materie prime e dell’energia. Ma da noi c’è un problema in più: in vent’anni siamo stati fermi, mentre gli altri hanno corso. Nel 2000 il pil pro capite italiano era superiore di 3-4 punti alla media dell’area euro; vent’anni dopo, alla vigilia della pandemia, la classifica si è invertita, perché gli altri sono cresciuti di più: alla fine del ’22, secondo il Centro studi economia reale di Mario Baldassarri, il distacco potrebbe arrivare a sette punti. Tornati al punto di partenza, al 2000, schiavi di una lentezza contro la quale niente hanno fatto i dieci governi che si sono succeduti, da Berlusconi a Conte: né per le riforme, né per il debito, né per la crescita.

Ora tocca al governo Draghi, numero 11 del ventennio, che al momento dell’elezione del nuovo Capo dello Stato avrà compiuto appena un anno di vita. Ma i dossier da chiudere sono ancora moltissimi, le aspettative altissime, e non solo qui. Si è appena votato in Germania, con l’addio ad Angela Merkel, “roccia di stabilità”, e l’incertezza sul governo che verrà; in primavera toccherà alla Francia, Macron sì o no. Insomma, per mesi il motore politico dell’Europa sarà in folle: e nell’Ue si pensa che dirottare Draghi porterebbe a un più grave elemendo di turbolenza.

E in dimora nostra? La strategia non è definita. Quasi fosse l’ultima chance, tutti i leader (tranne Meloni, che però si oppone con rispetto) prima hanno accettato una larga maggioranza, e poi che ad assumersi la responsabilità delle decisioni più controverse fosse il premier. Quasi un patto: a Draghi il compito di fare le cose che «vanno fatte perché si devono fare», come ha detto lo stesso premier citando Nino Andreatta; a partiti e movimenti, condizionati da una perenne campagna elettorale, l’occasione del dopo Mattarella per ricominciare a fare politica e prepararsi all’appuntamento del ’23. Sempre che non prevalga la voglia di votare prima nella speranza di riprendersi Palazzo Chigi. Sono i rovelli espressi da Giorgetti. Non ancora sciolti.



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di Bruno Manfellotto
espresso.repubblica.it
2021-10-06 07:28:00 ,

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