Torre del Greco. Quattro verbali di interrogatorio in cui i pentiti eccellenti della camorra all’ombra del Vesuvio ricostruiscono il «sistema-Comune». A due settimane dalla richiesta di rinvio a giudizio avanzata dal pubblico ministero Giuliana Moccia della procura di Torre Annunziata per la cricca specializzata nel truccare le gare d’appalto in cambio di mazzette e favori, si arricchisce di un nuovo e inquietante capitolo il romanzo criminale relativo agli intrecci tra clan e politica. Perché agli atti del procedimento destinato a finire sotto i riflettori del gip Valeria Campanile del palazzo di giustizia di via Nazionale – l’udienza preliminare è stata fissata per fine aprile – sono finite le confessioni degli ex boss e factotum della criminalità organizzata ora passati dalla parte dello Stato.
Il clan degli appalti
L’integrazione probatoria è arrivata a dieci giorni dalla svolta spartiacque tra imputati e indagati. A rischio processo ci sono gli ex assessori Donato Capone e Vincenzo Sannino – rispettivamente esponenti di spicco della giunta targata Ciro Borriello e dell’esecutivo di Giovanni Palomba – nonché i funzionari comunali Luigi Accardo e Salvatore Loffredo. A completare il quadro, l’imprenditore Ciro Vaccaro – ritenuto il trait d’union tra padrini e colletti bianchi – e due imprenditori pronti a mettere mano al portafogli per portare a casa i bandi pubblici. Non bastassero le prove messe in fila durante otto anni di indagini dal pool di investigatori chiamato a fare piena luce sulle «oscure manovre» in municipio, i difensori degli 8 imputati dovranno ora fronteggiare i «jolly» calati dalla procura di Torre Annunziata. In primis, le dichiarazioni di Isidoro Di Gioia – l’erede del padrino Gaetano Di Gioia, massacrato in un agguato di camorra il 31 maggio del 2009 – ritenuto tra i «beneficiari» delle gare d’appalto promosse dal Comune. Il collaboratore di giustizia – a processo nel filone camorristico dell’inchiesta – avrebbe fornito ulteriori particolari agli investigatori sul «funzionamento» dell’asse tra clan e colletti bianchi: novanta pagine in cui vengono ricostruiti gli episodi clou degli «anni d’oro» per la camorra, a cavallo tra il 2011 e 2015. Anni raccontati, inoltre, all’interno dei verbali sottoscritti da Giuseppe Pellegrino – il cassiere della holding della droga guidata da Maurizio Garofalo nonché cognato di Ciro Vaccaro – e Salvatore Gaudino, parente di Domenico Gaudino, alias uallarella, divenuto reggente della cosca degli amici di giù a mare dopo l’arresto di Isidoro Di Gioia.
Le verità degli imprenditori
Tra gli atti finiti all’interno del fascicolo all’attenzione del gip Valeria Campanile, inoltre, ci saranno gli interrogatori resi dai due imprenditori travolti dall’inchiesta. In fase di indagini, Rosario Maisto e Gabriele Perillo sono stati gli unici a chiedere di essere ascoltati dal pubblico ministero per provare a chiarire la propria posizione. A partire dagli incontri «sospetti» organizzati alla rotonda dell’autostrada e filmati dagli investigatori grazie alle informazioni «catturate» attraverso le intercettazioni telefoniche.
Cinque anni sotto i riflettori
La spina dorsale delle indagini abbraccia l’arco temporale dal 2011 al 2015. Ovvero la coda del primo mandato da sindaco di Ciro Borriello e – inframezzata dall’esperienza-lampo di Gennaro Malinconico – e l’alba del bis in municipio del leader locale del centrodestra. Quando intorno alla figura di Ciro Vaccaro – titolare di una ditta di pulizia, già finito in passato sotto i riflettori della guardia di finanza – sarebbe stata costruita una «squadra» di specialisti in corruzione, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Una squadra in cui, secondo gli investigatori, tutti avevano ruoli e compiti precisi. Destinati a essere definitivamente chiariti a fine aprile. ©riproduzione riservata