La fine del Ddl Zan è una batosta per Enrico Letta. E un assaggio della gara per il Quirinale

La fine del Ddl Zan è una batosta per Enrico Letta. E un assaggio della gara per il Quirinale

La fine del Ddl Zan è una batosta per Enrico Letta. E un assaggio della gara per il Quirinale



La fine è nota, come nel titolo del romanzo di Geoffrey Holiday Hall, anzi era nota da un pezzo. Non per questo le conseguenze politiche saranno meno pesanti. Di certo la tagliola calata mercoledì sul ddl Zan contro l’omotransfobia, affossato a scrutinio segreto per 23 voti di scarto (154 sì, 131 no) alla richiesta di «non passaggio all’esame degli articoli» presentata da Lega e Fratelli d’Italia, segna un’epoca, un confine, lo schiudersi di un orizzonte.

È su temi come questo, cioè di solito sulla pelle di chi è più fragile, che la politica misura la sua forza: è accaduto fra l’altro nel 2015, sei anni fa, col governo Renzi e il braccio di ferro sulle unioni civili; era accaduto otto anni prima anche con il secondo governo Prodi, dove invano si era tentato di approvare i cosiddetti Pacs, poi Dico (antesignani perduti della legge Cirinnà), in una battaglia che aveva segnato l’inizio della fine di quella maggioranza-pachiderma.

Accade adesso, con la fine del ddl Zan a segnare l’inizio della battaglia per il Colle. E non solo. Stretto dall’estate nella tenaglia tra i due Mattei (Salvini e Renzi) che vivono per ragioni diverse una fase difficile (rispettivamente: il flop alle urne e l’inconsistenza elettorale) e quindi hanno pieno interesse a sintonizzarsi fra loro, benedetto in ultimo tre giorni fa, con fare da coniglio mannaro, dal segretario del Pd Enrico Letta durante l’intervista con Fabio Fazio in modo che si potesse poi dire «l’abbiamo difeso fino all’ultimo» come in effetti ha detto dopo il senatore dem Alessandro Alfieri, il provvedimento contro l’omotransfobia, col suo destino a tagliola, disegna anche il come della prossima elezione del presidente della Repubblica, che entrerà nel vivo solo a fine dicembre.

Una partita dove, come pochi giorni fa in Senato, non si potrà prescindere da alcuno dei due Mattei: così come non può e non vuole fare il governo Draghi. Non a caso a giugno, sull’occasione della nota della Segreteria di Stato Vaticano critica sul ddl Zan, il presidente del Consiglio aveva speso parole sufficientemente caute da accontentare tutti: la sinistra per l’affermazione decisa circa «la laicità dello Stato», la destra per la sottolineatura del «rispetto del pluralismo e delle diversità culturali». Un caldo consiglio a non andare allo scontro, probabilmente.

È accaduto, invece. E per come è andata, rappresenta un bello stop per le ambizioni di Enrico Letta e un forte colpo alla maggioranza Ursula vagheggiata in questi giorni trasversalmente, a partire dal ministro azzurro della Pa Renato Brunetta. Dice chiaro che, all’ora X, la sinistra farà la sinistra, la destra la destra. Forza Italia compresa. E apre la resa dei conti nel centrosinistra: quella con il fronte renziano che i risultati elettorali avevano temporaneamente messo da parte.

È proprio il partito di Matteo Renzi, infatti, il principale indiziato nella conta degli affossatori occulti: e da domani sarà ancora più difficile, per Enrico Letta, costruire una coalizione che comprenda anche Italia viva.

L’equilibrio tra le forze non è dunque così univoco come quello uscito dall’ultima tornata elettorale che ha visto vincente il centrosinistra da Ulivo 2.0 voluto da Letta (e Giuseppe Conte). Non è finita: il segretario del Pd vede pericolosamente risorgere, sullo sfondo, l’ombra del se stesso dei tempi di Palazzo Chigi. Quando da premier diceva tante cose di sinistra, ma non riusciva a portarne a abitazione nemmeno una.



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di Susanna Turco
espresso.repubblica.it
2021-10-28 15:47:00 ,

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