Sui fondali del mare abbondano infatti cobalto, litio, manganese, nichel, rame e altri minerali oggi fondamentali per la produzione di tecnologie come telefoni cellulari, turbine eoliche e batterie per veicoli elettrici. La pratica di estrazione in mare di questi materiali, il deep sea mining, è al centro del dibattito in un vertice che si è svolto a Kingston, in Giamaica, che vede coinvolti i Paesi dell’Autorità internazionale dei fondali marini (Isa), l’ente collegato all’Onu che si occupa di regolamentare le aree marine che non rientrano nella zona economica esclusiva di alcuno Stato, quindi oltre le 200 miglia nautiche dalla costa.
Mentre alcune lobby e governi spingono per ottenere licenze che consentano loro di procedere con le estrazioni, gli ambientalisti si oppongono sostenendo che la conoscenza dei fondali non sia sufficiente per calcolare con precisione l’impatto sulla biodiversità e sugli ecosistemi che questa pratica invasiva potrebbe avere. A supporto dei gruppi che si sono schierati in difesa degli oceani un ruolo fondamentale lo giocano i dati emersi da uno studio pubblicato recentemente su Current Biology e condotto dal Geological Survey of Japan, istituto di ricerca in capo al ministero dell’Economia del Giappone.
Gli scienziati hanno osservato gli effetti sulla fauna marina di alcuni test di perforazione fatti nel 2020 in corrispondenza della dorsale sottomarina Takuyo-Daigo, in acque territoriali nipponiche, per l’estrazione di croste di cobalto. A un anno dai lavori è stato notato un calo del 43% della densità di pesci nelle aree direttamente interessate dall’inquinamento dei sedimenti sollevati durante i lavori, dato che sale al 56% allargando la lente di osservazione anche alle aree circostanti. “La fauna mobile – si legge nel report – era meno abbondante solo nell’area di deposizione dopo l’azione di disturbo. Successivamente i nuotatori altamente mobili mostravano densità ridotte anche nelle zone adiacenti. Forse a causa della creazione di aree di alimentazione non ottimali dovute alla deposizione stessa”.
La decisione sulle sorti del deep sea mining
Una ricerca i cui risultati dovrebbero chiamare alla responsabilità i governi dei 168 membri dell’Isa, riuniti per decidere il futuro del deep sea mining. L’organismo responsabile della conservazione dei fondali marini internazionali dovrà stabilire se concedere o meno – e a quali condizioni – il “via libera” alle numerose domande di licenza arrivate negli ultimi anni, da quando nel 2021 la minuscola nazione del Pacifico di Nauru, in collaborazione con una compagnia mineraria canadese chiamata The Metal Company, ha attivato una clausola della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare secondo la quale la richiesta da parte di un Paese di avviare l’estrazione mineraria in acque internazionali impone all’Isa di produrre entro due anni un regolamento in materia e un meccanismo di condivisione delle risorse estratte.
Finora l’organizzazione ha consentito alle aziende di scandagliare le profondità marine solo a scopo di ricerca, normando 31 contratti di esplorazione. Gli esperti stimano però che a oggi sia disponibile appena l’1,1% della conoscenza necessaria per redigere regolamenti sull’estrazione mineraria nei fondali marini basati su dati scientifici. “I lavori non possono continuare senza la necessaria e ad oggi insufficiente conoscenza per regolarli. Le conseguenze sarebbero catastrofiche per la vita umana e marina. Siamo preoccupati che questa regola, ora scaduta, possa permettere a qualunque Paese di avanzare richieste di sfruttamento senza che si sappia cosa accadrà dopo”, spiega la responsabile mare del Wwf Italia, Giulia Prato.
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di Massimiliano Cassano www.wired.it 2023-08-10 05:00:00 ,