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Data : 2024-01-19 14:13:56
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Tra giovedì e venerdì alla Camera si sono svolte le audizioni di Giuseppe Conte e Giorgia Meloni nell’ambito del giurì d’onore, cioè la commissione d’indagine chiesta a metà dicembre dal presidente del Movimento 5 Stelle per stabilire se la presidente del Consiglio abbia effettivamente leso la sua onorabilità, come Conte sostiene. Alla base di questo dissidio c’è la vicenda del MES, il Meccanismo europeo di stabilità che garantisce un fondo di sicurezza a Stati membri dell’Unione Europea e banche sistemiche dell’Europa in crisi.
Meloni in parlamento aveva fornito una ricostruzione piuttosto distorta di come i precedenti governi, e in particolare i due guidati da Conte, avessero gestito le trattative europee sul MES. E Conte, a quel punto, ha deciso di ricorrere al giurì d’onore, dove a giudicare saranno cinque deputati. Le audizioni dei due contendenti sono secretate, così come le riunioni dei deputati chiamati a valutare e coordinati dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulè, di Forza Italia.
Nelle stesse ore in cui si consuma questo scontro insolito e riservato, di cui a fatica si potrà avere una ricostruzione completa, i collaboratori di Meloni stanno definendo con lo staff della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein l’intesa per organizzare un confronto televisivo tra le due leader. È un segno del fatto che Meloni, almeno sul piano mediatico, preferisce confrontarsi con Schlein, che considera la sua rivale e interlocutrice principale. Non è una scelta di oggi: Meloni da tempo ha individuato nei dirigenti del Partito Democratico i suoi avversari più diretti. Per capire il perché bisogna tornare alla scorsa campagna elettorale.
Nella sfida per le elezioni del settembre del 2022, quelle che avrebbero poi sancito il trionfo di Fratelli d’Italia e la conseguente nascita dell’attuale governo di destra, Meloni aveva partecipato a numerosi confronti e dibattiti con il segretario del PD dell’epoca, Enrico Letta, al punto che lei stessa ironizzò su questa ricorrenza di incontri dicendo che «siamo Sandra e Raimondo della politica», con riferimento alla storica coppia televisiva Sandra Mondaini e Raimondo Vianello.
In quel caso era conveniente per entrambi seguire questa polarizzazione, che garantiva una sorta di reciproca legittimazione. Meloni poteva scrollarsi di dosso le accuse di autoritarismo e allontanare da sé l’immagine di leader urlatrice e indisponibile al confronto; Letta, in affanno per recuperare consensi, diventava il contendente pressoché unico di Meloni, sperando così di riuscire a catalizzare su di sé tutti i voti di chi temeva una vittoria della destra sovranista.
La vittoria poi è arrivata, ma la tattica di Meloni è rimasta la stessa e non è cambiata neppure quando Schlein è stata eletta segretaria del PD nel marzo del 2023. Anzi, per certi versi il mandato di Schlein alla guida del PD fu di fatto inaugurato pochi giorni dopo la sua proclamazione proprio con un confronto alla Camera, durante un question time in cui interrogò Meloni sulle politiche per il lavoro e sul salario minimo. Sul tema ci fu un dibattito piuttosto vivace.
Negli ultimi tempi, con l’avvio della campagna per le elezioni europee di giugno, è stata proprio Meloni a mostrarsi desiderosa di rianimare questo confronto, invitando per esempio Schlein a partecipare a un dibattito ad Atreju, cioè il raduno nazionale di Fratelli d’Italia che s’è svolto a Roma a metà dicembre. Schlein ha declinato l’invito, che effettivamente l’avrebbe spinta a misurarsi con la presidente del Consiglio davanti a una platea troppo sbilanciata a favore di quest’ultima. È da quel momento che negli staff delle due leader è nata l’idea di organizzare un confronto televisivo.
Un dibattito del genere aiuterebbe entrambe nel monopolizzare l’attenzione mediatica su di loro, rendendo dunque le due leader le principali protagoniste della scena politica. Questo è tanto più significativo nell’ambito di una contesa che si basa su un sistema elettorale puramente proporzionale, com’è per le europee, dove le coalizioni contano poco e i singoli partiti competono in maniera autonoma, cercando ciascuno di ottenere il massimo dei consensi anche a discapito dei propri alleati. Sia per Fratelli d’Italia sia per il PD sarebbe sicuramente vantaggioso accentuare la polarizzazione: di qua il partito di destra, di là quello di sinistra.
Si spiega così anche la volontà, più o meno dichiarata, di Schlein e Meloni di candidarsi per le europee. Meloni ha lasciato intendere che questa sarebbe la sua preferenza durante la conferenza stampa di fine anno, e nel farlo ha alluso a una sfida diretta con Schlein. «Penso anche che una mia eventuale candidatura potrebbe forse portare anche altri leader a fare la stessa scelta, penso nell’opposizione, e potrebbe anche diventare un test di altissimo livello, quindi un test democratico molto interessante», ha detto Meloni. Schlein ha detto che deciderà al termine di un confronto col suo partito, ma ha respinto o confutato le tesi dei vari esponenti del PD e del centrosinistra che le suggeriscono di non candidarsi.
I motivi per cui Meloni cerca con tanta insistenza un confronto diretto con Schlein sono molti. Il primo e più importante risiede nella convinzione che Meloni condivide coi suoi consiglieri sulla fragilità di Schlein come leader e come personaggio politico. Meloni sa che molti esponenti di rilievo del PD hanno grosse riserve su di lei. Alcune di queste perplessità sono di natura strettamente politica: c’è una corrente del partito, quella più centrista e riformista che all’ultimo congresso aveva sostenuto la candidatura di Stefano Bonaccini, che critica Schlein per il suo approccio troppo radicale su alcuni temi, per la sua linea troppo di sinistra, per dirla in breve. È l’area che fa riferimento all’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, oltre che a Bonaccini.
Ma anche nella corrente di sinistra del PD, in effetti, ci sono malumori. È il caso dell’ex ministro Andrea Orlando, per esempio, che nell’ultimo periodo si è intestato varie battaglie, sia sulla politica estera sia su giustizia e lavoro, con lo scopo di suggerire al PD una condotta più radicale e di facilitare un’intesa strutturale col M5S.
Nel complesso, però, un po’ tutti nel PD sono scontenti perché non comprendono le intenzioni di Schlein, che è una leader che tende a condividere le sue riflessioni coi pochissimi collaboratori stretti di cui si fida, per lo più estranei alle strutture e alle gerarchie del partito. A questo va poi aggiunta una sua condotta in generale estremamente attendista, e talvolta ambigua. Schlein aveva vinto il congresso portando avanti un programma radicale, promettendo uno smantellamento delle correnti interne al partito e un generale spostamento a sinistra su molte decisive questioni. In effetti, però, la sua segreteria finora è stata piuttosto cauta nel mettere in discussione gli equilibri interni al PD, e Schlein ha cercato più volte accordi e compromessi con la corrente moderata che fa capo a Bonaccini.
Per fare un esempio recente, la candidatura alle europee ha generato grosse tensioni nel PD. Per Meloni, che guida un partito verticistico in cui è impensabile mettere apertamente in discussione le scelte della leader, è stato facile esprimere la propria intenzione di candidarsi.
Schlein si trova invece a dovere gestire un dibattito interno in cui parlamentari, ex presidenti del Consiglio ed esponenti a vario titolo del PD la invitano a non candidarsi, perché farlo significherebbe svilire la pluralità del partito, come hanno detto varie deputate e senatrici del PD nelle scorse ore. E perché la sua elezione a parlamentare europea sarebbe poi incompatibile col suo mandato di deputata: è una delle tesi sostenute dall’ex presidente del Consiglio Romano Prodi. O magari le dicono di candidarsi – lo ha fatto il senatore Walter Verini – per poi dimettersi da deputata e andare davvero al parlamento europeo. Insomma, Schlein senza neanche aver deciso si trova a dover gestire una polemica non banale sulla decisione che potrebbe prendere.
Meloni è convinta che spingendo Schlein ad accettare uno scontro diretto, inevitabilmente molte di queste contraddizioni della leader del PD verrebbero esasperate. In generale, i consiglieri di Meloni prevedono che Schlein punterebbe molto nella critica ideologica, rinfacciando a Meloni le sue ambiguità nella condanna delle manifestazioni neofasciste e nella gestione dei suoi rapporti con leader europei sovranisti ed estremisti, come l’ungherese Viktor Orbán, la francese Marine Le Pen o il polacco Mateusz Morawiecki.
Il 10 gennaio scorso, mentre tra i gruppi parlamentari del PD era in corso un confronto complicato sul sostegno militare all’Ucraina, Schlein ha deciso di evitare quel dibattito e ha interrogato invece il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi sulla commemorazione neofascista di Acca Larenzia. Il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti, di fronte a questa scelta, ha commentato ironicamente davanti ai cronisti: «Ognuno ha le sue priorità», e ha poi fatto una battuta per dire che il PD è ormai un «ex partito democratico».
Sono parole rappresentative di ciò che i dirigenti del partito di Meloni pensano di Schlein: una leader poco strutturata che preferisce battaglie considerate astratte e identitarie sui valori (l’antifascismo, il pericolo di deriva autoritaria, questioni di genere e così via), e poco preparata ed efficace su altri temi come l’economia o la politica estera. In quest’ottica, secondo i collaboratori di Meloni, la polarizzazione porterebbe Schlein a spostarsi ancor più a sinistra, scegliendo un approccio più radicale e massimalista: e questo aumenterebbe poi l’insofferenza delle correnti centriste del PD nei confronti della segreteria.
C’è poi una questione che riguarda l’oratoria. I dirigenti di Fratelli d’Italia hanno notato una cosa che un po’ tutti i cronisti parlamentari sanno: Schlein tende a evitare il più possibile i confronti diretti con la stampa, specie se non sono pianificati e preparati con cura insieme al suo staff. Più in generale, Schlein anche alla Camera si muove di rado senza essere accompagnata dal suo portavoce, il giornalista Flavio Alivernini, e quasi mai accetta di dire qualcosa di estemporaneo ai giornalisti che le fanno domande fuori dell’aula. Tutto ciò trasmette l’impressione di una leader timorosa, dotata di una capacità dialettica non proprio straordinaria.
Nel prepararsi alla campagna congressuale che l’ha portata poi alla segreteria del PD, Schlein ha studiato alcune tecniche comunicative e di linguaggio non verbale, a cui ricorre con frequenza durante le sue interviste televisive: sorridere sempre quando risponde per trasmettere sicurezza, guardare in modo intenso il suo interlocutore per mostrare empatia, parlare rivolgendosi per metà al giornalista che la intervista e per metà alla telecamera. Nonostante questo si è spesso sentito dire che i suoi interventi televisivi risultano poco efficaci, e le sue dichiarazioni troppo vaghe e fumose.
Lo staff di Meloni ritiene che queste difficoltà di Schlein potrebbero risaltare in un confronto diretto, dove inevitabilmente bisogna saper rispondere a colpi bassi e a provocazioni dell’avversario, o reagire a situazioni impreviste. In questo Meloni è sicuramente molto esperta e navigata, anche grazie a una carriera politica ormai ventennale segnata da numerosi scontri politici animati e spesso anche feroci, sia in televisione sia in parlamento.
Infine c’è il PD. Meloni sa che ha di fronte la leader del partito che più di ogni altro negli ultimi dieci anni ha tenuto una condotta responsabile e istituzionale, seguendo in modo fedele le indicazioni del presidente della Repubblica e rappresentando più di tutti i valori dell’europeismo. Per queste ragioni potrebbe indirettamente rinfacciare a Schlein di essere la rappresentante del cosiddetto “establishment”, proponendosi al contrario come la leader di un partito che solo da poco più di un anno è al potere. È una linea già seguita da Meloni di recente: quando Schlein ha denunciato il problema dei salari bassi, la presidente del Consiglio ha replicato dicendo che a impoverire gli italiani erano stati i governi guidati dal centrosinistra negli anni precedenti.
Tutto ciò è un ulteriore motivo che spiega bene perché Meloni preferisca il confronto con Schlein, e non con Giuseppe Conte. Conte non disdegna le posizioni populiste e in un certo senso estreme, quando si trova a confrontarsi coi suoi rivali, spesso anche rinnegando le sue stesse scelte e rinunciando con leggerezza a qualsiasi forma di coerenza. Sul MES, ad esempio, il M5S ha infine votato contro la ratifica di un trattato che era stato negoziato e approvato proprio da Conte quando era presidente del Consiglio. Sul sostegno all’Ucraina Conte da tempo predica in modo un po’ strumentale il pacifismo e la riduzione delle spese militari, dopo aver guidato governi che hanno aumentato la spesa militare in modo considerevole. Ultimamente, proprio per motivi di propaganda elettorale, Conte è tornato a utilizzare toni fortemente antieuropeisti.
Per Schlein, invece, assumere queste posizioni sarebbe più problematico, perché farlo la esporrebbe alle critiche di una grossa parte del suo partito che proprio sulla politica estera e sull’europeismo troverebbe intollerabile discostarsi dalla linea tradizionale del PD.
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