La Norvegia è il primo paese al mondo ad autorizzare l’estrazione dei minerali dai fondali marini. Il 9 gennaio lo Storting, ovvero il parlamento di Oslo, ha approvato una legge che legalizza la pratica, finora ritenuta a livello internazionale quantomeno controversa a causa dell’impatto che potrebbe avere sull’ambiente. Se è vero che in fondo al mar si trovano materie prime come litio, scandio e cobalto, sempre più richieste dall’industria mondiale perché necessarie alla transizione energetica, dall’altro lato della medaglia c’è la preoccupazione relativa alla possibile distruzione della gran parte dei fondali sui quali l’estrazione sarà praticata. Anche per questa ragione, nonostante i primi tentativi in questo senso risalgano agli anni Sessanta, nessun paese si era mai spinto finora al traguardo raggiunto da quello scandinavo.
Nel dettaglio, la norma prevede per ora che la raccolta dei minerali possa avvenire solo in acque norvegesi, ma le istituzioni nazionali si starebbero già muovendo per ottenere il permesso di allargarla a quelle internazionali. La legge non prevede però un vero e proprio “liberi tutti”: le aziende interessate saranno chiamate a inviare una richiesta per ottenere la relativa licenza, indicando anche una serie di valutazioni ambientali. A quel punto, sarà lo Storting a stabilire caso per caso quali approvare a quali no.
Come sottolinea Il Post, sono soprattutto due i tipi di fondale in cui si trovano i metalli richiesti dal settore tecnologico. Da un lato ci sono le sorgenti idrotermali, ovvero fratture del suolo dalle quali esce acqua a una temperatura che raggiunge i 400 gradi, duecento volte maggiore rispetto ai 2 normalmente riscontrati nelle profondità oceaniche. Dall’altro ci sono delle piane abissali ricche di noduli metallici. Si tratta di montagnole sferiche di minerali dal diametro di alcuni centimetri parzialmente o totalmente sepolte, che contengono soprattutto rame, manganese, zinco e cobalto.
Tecnicamente, l’estrazione avviene in più fasi. La prima consiste nell’esplorazione del fondale, che viene effettuata con l’ausilio di veicoli sottomarini a comando remoto simili a quelli inviati nello spazio. Essi percorrono lunghi tratti di fondale per valutare l’effettiva presenza di minerali nelle aree identificate come potenzialmente ricche di materie prime, dalle quali raccolgono campioni. Successivamente, dopo aver individuato il luogo d’estrazione, si procede con l’installazione di una stazione galleggiante o di una nave da utilizzare come base operativa. Da lì, attraverso strutture simili a draghe, si passa allo scavo vero e proprio nei fondali marini e alla raccolta dei sedimenti, che in superficie vengono separati dai metalli per poi essere nuovamente rilasciati in acqua.
Tutta questa procedura si trasforma in uno stress importante per l’ambiente. Alla distruzione dei fondali marini si aggiunge infatti proprio il rilascio dei sedimenti, che raggiungono quantità giornaliere quantificabili tra i 50mila e i 150mila metri cubi. Esso avviene migliaia di metri più in superficie rispetto al fondale, quindi i sedimenti attraversano più ecosistemi e vengono spazzati dalla corrente anche a miglia di distanza dal luogo in cui avviene l’estrazione.
I materiali di scarto altereranno inoltre la composizione chimica dell’acqua, mentre il rumore delle escavatrici disturberà la fauna marina. Il 9 gennaio la Norvegia potrebbe davvero aver scritto la storia. A che prezzo, lo dirà il tempo.
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di Alessandro Patella www.wired.it 2024-01-10 17:03:11 ,