di Luca Zorloni
L’ultimo dato ufficiale è di novembre 2021. Secondo i calcoli di Eurostat, l’agenzia statistica comunitaria, nel 2020 i paesi dell’Unione europea hanno importato pannelli solari per circa 8 miliardi di euro, a fronte di 1,8 miliardi di export. E tre pannelli solari su quattro consegnati alle porte dell’Unione sono fabbricati in Cina.
Il Dragone domina l’industria del fotovoltaico. Nel 2021 si stima che le esportazioni di pannelli solari e affini made in China siano cresciute del 60% rispetto all’anno precedente, toccando i 28,4 miliardi di dollari, come ha riferito il South China Morning Post citando il ministero dell’Industria e delle tecnologie informatiche. Nonostante gli effetti della pandemia, i colli di bottiglia nella produzione e nella logistica, la carenza di materie prime e componenti tecnologiche, l’anno scorso la Cina ha esportato moduli solari per 100 Gigawatt di produzione, secondo i calcoli dell’Asia Europe clear energy advisory (Aecea), una società di consulenza tedesca con sede a Pechino.
Il piano solare dell’Europa
Al Dragone, quindi, devono essere fischiate le orecchie quando, mercoledì 18 maggio, a Bruxelles la Commissione europea ha svelato Repower Eu, la sua proposta di correzione al piano di transizione energetica del pacchetto climatico Fit for 55 (per ridurre del 55% le emissioni del blocco entro il 2030). Dentro il programma, che mette sul tavolo circa 300 miliardi per accelerare l’investimento in energie verdi con l’obiettivo dichiarato di svincolarsi dalla dipendenza del gas russo, c’è anche una strategia solare, che punta nel 2025 al raddoppio della produzione da pannelli solari e fotovoltaico rispetto al 2020, a 320 GW, e toccare i 600 GW nel 2030, sostituendo così due miliardi di metri cubi di gas.
“I tetti sono stati il sito per gran parte dello sviluppo di energia solare, ma rimane un grande potenziale non sfruttato”, osservano i tecnici della Commissione, la cui proposta è di arrivare a un obbligo di pannelli solari e fotovoltaico con tempi scanditi. Entro il 2026 per tutti i nuovi edifici, pubblici o commerciali, più grandi di 250 metri quadri; entro il 2027 per quelli esistenti; nel 2029 per le nuove costruzioni residenziali.
Per la Commissione “i cittadini europei sono felice di produrre in autonomia o collettivamente la propria energia”. L’exit strategy dal gas russo ha una conditio sine qua non: forniture costanti, almeno nel breve periodo, dalla Cina. È la stessa Commissione a riconoscere questo fattore di rischio. “Oggi l’Unione è un piccolo attore in molti passaggi critici della produzione manifatturiera e dell’assemblaggio in un range alta della catena del valore, inclusi lingotti, wafer e celle – si legge nella relazione -. Se non si pone rimedio alla scarsità di produttori basati in Europa, la competitività dell’Unione in ricerca e innovazione, un’area nella quale la prossimità ai distretti manifatturieri è spesso necessaria, rischia di essere compromessa. Il contributo marginale dell’Unione alle fasi di produzione e assemblaggio, combinato con il ruolo quasi monopolistico di un paese nella produzione di componenti a livello globale [la Cina, di cui i tecnici però si guardano bene di fare il nome, ndr], diminuisce la resilienza dell’Ue in caso di prolungate crisi esterne di fornitura”.
Davide Chiaroni, vicedirettore di Energy & Strategy, centro studi della School of Management del Politecnico di Milano, vede il bicchiere mezzo pieno: “Nei prossimi tre-quattro anni è chiaro che non abbiamo la scalabilità per rispondere in modo strutturale alle richieste e occorrerà fare leva sull’import, il che comunque non è un male, perché attiva una filiera di business locale nelle installazioni e nella manutenzione e, a differenza delle fonti fossili, non ci lega al rifornimento della materia prima”. Sul medio termine, al 2030, l’obiettivo deve essere quello di “rafforzare la capacità produttiva europea”, dice l’esperto.
Per Chiaroni, sarà difficile per l’Unione staccarsi dalla Cina per quanto riguarda la “produzione di silicio, che è il componente di base. Ma risalendo la filiera, si può entrare sulla produzione di celle e moduli”, coinvolgendo le grandi utility. La Commissione ha in mente in effetti un’alleanza industriale per il fotovoltaico. Obiettivo: coprire tutte le fasi di produzione in cui ora l’Europa è scoperta, come wafer e celle, e aumentare la produzione interna di 20 GW in ogni fase entro tre anni. Su questo capitolo della strategia, però, la Commissione si mantiene più sul vago. Cita accordi di filiera, investimenti in innovazione, sostegno al riciclo dei componenti e delle materie prima. E stima che ci vogliano 8 miliardi di investimenti per accendere i motori, pescandoli dai fondi di coesione, quello per l’innovazione e InvestEu (il veicolo di ripresa varato dopo la crisi causata dalla pandemia). “Il settore europeo del solare è pronto per scalare e rispondere agli obiettivi fissati oggi”, il commento di Walburga Hemetsberger, ad di Solar Power Europe, associazione di categoria.
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www.wired.it
2022-05-22 05:00:00