Ciò che soffia nel Sahara non rimane nel Sahara. Dal vasto deserto africano partono regolarmente nuvole di polvere che volano in Europa, tingendo di arancione le montagne innevate. Attraversando l’Oceano Atlantico, queste nuvole arrivano a fertilizzare la foresta amazzonica con il fosforo, spingendosi fino agli Stati Uniti.
I modelli climatici non sono in grado di spiegare in modo efficace le emissioni di polvere proveniente dal Sahara (o da qualsiasi altra regione desertica). Sebbene i satelliti riescano a seguire i pennacchi di polvere nei loro movimenti attraverso l’atmosfera, gli scienziati non hanno abbastanza dati per dimostrare in modo definitivo come la polvere potrebbe raffreddare o riscaldare il pianeta, accelerando o rallentando il cambiamento climatico causato dall’uomo.
Come funziona Emit
“I nostri set di dati si basano su cinquemila campioni di suolo e non sono sufficienti – spiega Natalie Mahowald, scienziata della Cornell University –. Nessuno vuole andare in mezzo al deserto per analizzare da cosa sono composti i suoli“. Mahowald ha collaborato con la Nasa alla missione Earth Surface Mineral Dust Source Investigation, o Emit, che prenderà il via sulla Stazione Spaziale Internazionale (Iss) il mese prossimo. La missione utilizzerà una tecnica nota come spettroscopia, che gli astronomi usano da decenni per determinare la composizione di corpi distanti, rivolgendola però verso la Terra per analizzare i suoli del pianeta. In questo modo gli scienziati potranno finalmente ottenere un quadro più completo di queste polveri: la loro provenienza, la composizione e il modo in cui queste particelle potrebbero influenzare il clima. “Rilevarle a distanza è una cosa molto, molto più sensata“, spiega Mahowald.
Le molecole di qualsiasi materiale assorbono e poi emettono radiazioni elettromagnetiche in modi diversi. Gli astronomi possono utilizzare uno spettrometro per analizzare la luce proveniente da un pianeta lontano, isolando per esempio l’idrogeno o il carbonio grazie alle “firme” uniche di questi elementi. Anche se il pianeta si trova a diversi miliardi di chilometri di distanza, la sua composizione atmosferica viene rivelata dalla luce che rimbalza sulla sua superficie.
Lo spettrometro di Emit, che sarà fissato alla parte inferiore dell’Iss, dividerà la Terra in fasce larghe circa ottanta chilometri, alla ricerca delle firme uniche di specifici minerali. Allo strumento l’ossido di ferro, per esempio, apparirà diverso dall’argilla, anche se all’occhio umano la superficie di una regione desertica potrebbe sembrare simile a un’altra. “Dobbiamo misurare le impronte digitali dei minerali nelle regioni aride – racconta Robert O. Green, ricercatore principale di Emit –. Entro un anno avremo abbastanza mappe di minerali per iniziare a fornire nuove informazioni per l’inizializzazione dei modelli climatici“.
Gli obiettivi della missione
L’inserimento di questi nuovi dati nei modelli esistenti consentirà agli scienziati del clima di comprendere meglio il ruolo della polvere in relazione alla temperatura del nostro pianeta. Tradizionalmente, i ricercatori hanno rappresentato la polvere come una specie di media semplificata, sotto forma di foschia gialla. “Ma se si osserva il suolo, ci si accorge che può essere di tutti i colori: nera, rossa, o bianca, un colore molto riflettente – spiega Mahowald, vice ricercatrice principale di Emit –. Tutto ciò che è più scuro assorbirà più radiazioni e ci riscalderà, mentre gli elementi più chiari rifletteranno le radiazioni portando a un raffreddemento.
Mappare la composizione minerale delle regioni del mondo che producono polvere consentirà a Mahowald e Green di capire meglio quale sia il contributo di queste aree al flusso di polvere globale e di analizzare i cambiamenti nel corso del tempo. Un determinato deserto, per esempio, potrebbe espandersi a causa del riscaldamento del pianeta, mentre altre regioni potrebbero diventare più umide, riducendo così il loro contributo alla polvere atmosferica (anche se sembra un controsenso, un’atmosfera più calda in realtà trattiene più acqua).
Leggi tutto su www.wired.it
di Matt Simon www.wired.it 2022-05-22 05:00:00 ,