Ci sono film che possono riuscire solo a un attore. Come regista intendiamo. E non perché l’interpretazione vi sia fondamentale, lo è sempre, ma per la fisicità che impregna ogni dettaglio. Una fisicità tanto più decisiva quanto più la storia sconfina nell’allucinazione. O più semplicemente nell’immaginazione.
“Stringimi forte” è uno di questi film azzardati e volatili che riescono a librarsi magicamente in aria anche se a ogni scena dà l’impressione di poter precipitare, come un aquilone. Per gli amanti delle classificazioni è un mélo travestito da road-movie. Strutturalmente invece è un film-puzzle: un mosaico di momenti ripartiti su due fronti e orchestrati a meraviglia da Mathieu Amalric, alla sua ottava regia (compreso un adattamento da “Lo Stadio di Wimbledon” di Daniele Del Giudice) anche se in Italia lo conosciamo soprattutto come (magnifico) attore di Resnais, Polanski, Wes Anderson, Desplechin.
Da un lato dunque c’è il viaggio di Clarissa (la magnetica Vicky Krieps scoperta nel “Filo nascosto” di P.T. Anderson), che abbandona figli e compagno per vagare tra monti e campagne su una vecchia station wagon che sembra uscita da un quadro iperrealista di Robert Bechtle (citato a metà film). Dall’altro c’è la vita di quella famiglia che continua anche in sua assenza, o almeno così lei immagina, chiedendosi se soffriranno, se gli mancherà, se il marito saprà crescere quel figlio ragazzino e la primogenita così dotata per il piano (magari suggerendogli cosa dir loro con una voce fuori campo, trovata bellissima). Anche se tra un ricordo e una fantasia – il film non distingue mai i piani temporali né immaginazione e realtà – pian piano sorge il dubbio che le cose non stiano proprio così.
Forse Clarissa vaga e rimugina per altre ragioni. Forse tutta quell’euforia e quei picchi di dolore hanno un’altra spiegazione. Che Amalric ci lascia intuire abbastanza presto, per fortuna, anziché svelarlo platealmente alla fine. Salvo poi in certo modo costringerci a rientrare nel delirio di Clarissa, facendolo nostro, come se non ci fossero alternative. Rendendo tutto ancora più vero e straziante grazie a una regia ossessionata dal peso e dalla consistenza dei corpi (quante scene costruite sul galleggiare o il librarsi in aria dei personaggi…). Da una pièce di Claudine Galea. Reinventata per lo schermo con grazia stupefacente.
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di Fabio Ferzetti
espresso.repubblica.it
2022-02-07 11:26:00 ,