Tropic Thunder compie 15 anni, e lo fa forte di un’eredità tanto più centrale quanto rilevante a mano a mano che il tempo passa e ci accorgiamo che ridere è diventato sempre più difficile. Di base in quel 2013, Ben Stiller creò una summa cinematografica della demenzialità, di ciò che la parodia poteva donarci. Ripensare a questa commedia action, al suo cast incredibile, alle gag e battute, significa fare un viaggio nel tempo, quando ancora il cinema era capace di farci ridere di sé stesso e di noi stessi.
Ridere facendo a pezzi il mito hollywoodiano
Tropic Thunder possiamo definirla una delle ultime vere commedie americane, anche se la realtà è che parlare del film di Ben Stiller, una parodia dominata da una demenzialità pungente e dissacrante, richiede una capacità di analisi non da nulla. Oggi sono passati esattamente 10 anni da quando sghignazzavamo grazie a questo grottesco e sovente sboccato film, che decostruiva la lunga tradizione dei war movie hollywoodiani, prendeva a sprangate lo star system, l’industria dell’intrattenimento (non solo cinematografica), con una libertà e un’anarchia incredibili.
La realtà è che oggi un film come Trophic Thunder sarebbe impossibile da realizzare, questo nonostante sia stato capace di mettere sul banco degli imputati ipocrisia, sessismo, razzismo, la violenza e tutto il peggio del peggio di quel mondo dorato che chiamiamo cinema. Film corale nel senso più universale, sceneggiato in modo perfetto da Ben Stiller, Etan Cohen e Justin Theroux, Tropic Thunder è stato però soprattutto uno degli ultimi colpi di coda, ultimi assalti della comicità irriverente e demenziale cara alla tradizione anglosassone, prima dell’oscurantismo moderno, in cui ridere è peccato imperdonabile, atto impossibile.
Ben Stiller, deus ex machina di Tropic Thunder, aveva concepito l’idea iniziale sul set di un altro grande film americano sulla guerra: L’Impero del Sole di Steven Spielberg. Il regista era stato uno dei primi a concepire training specifici per gli attori, come visto per esempio in Salvate il Soldato Ryan, con ottimi risultati. Stiller all’epoca pensò che sarebbe stato fantastico parodiare tale elemento, così come il famoso Method Acting, quello utilizzato fino all’estremo da tanti attori di prima grandezza. Quale ambientazione migliore quindi di un set cinematografico? Giungla con tutte le sue pazzie, i suoi estremismi, personalità insopportabili e narcisiste costrette a stare fianco a fianco?
Il Vietnam movie risplendeva nella sua essenza mitologica, ancora inquietante e terribile, ripetuta per decenni da una cinematografia impegnata, che Stiller omaggiò e assieme sottopose ad un bombardamento continuo. Platoon, Hamburger Hill, Apocalpyse Now, naturalmente poi anche Full Metal Jacket, Vittime di Guerra, la saga di Rambo nella sua interezza, il Cacciatore di Cimino, insomma tutto un insieme di film che il pubblico conosceva benissimo e poté identificare nelle mille citazioni, parodie, di un film semplicemente privo di ogni possibile freno inibitorio. Nulla e nessuno era al sicuro in Tropic Thunder, che viaggiava su due binari paralleli ma diretti verso la stessa meta: desacralizzare il cinema dentro e dietro la camera da presa.
Tropic Thunder come semantica si rifaceva ad un mondo comandato da un narcisismo patologico, da bugie, ipocrisia ed egoismo: quello delle produzioni cinematografiche. Tugg Speedman (Ben Stiller), Kirk Lazarus (Robert Downey Jr.), Jeff Portnoy (Jack Black), Alpa Chino (Brandon T. Jackson) e Kevin Sandusky (Jay Baruchel), sono 4 esemplari di fauna attoriale detestabile, egoriferita, piena di nevrosi e vanità. Il biopic basato sulle memorie di John “Quadrifoglio” Tayback (Nick Nolte) che stanno girando sta fallendo, la produzione nelle mani del dispotico e Les Grossman (Tom Cruise), forza il debole regista Damian Cockburn (Steve Coogan) a portarli nella giungla per creare una sorta di “operazione verità” che salvi la baracca. Invece finiscono tra guerriglieri e narcotrafficanti, costretti a lottare per le loro stesse vite, mentre tutto ciò in cui credono, compresa la “verità” di Tayback è una menzogna. Ma la realtà è che andando avanti capiamo che loro stessi sono una menzogna, il loro supposto talento, le loro carriere, personalità, l’immagine pubblica di sé, solo un cumulo di bugie. Oppure no? Perché Tropic Thunder, dietro la maschera di clown pecoreccio e folle, nasconde in realtà un ragionamento tutt’altro che banale sul rapporto tra immagine e verità, arte e moralità.
Un film capace di spaziare su più temi e criticità
Tropic Thunder in ognuno dei personaggi (anche i secondari) ci offre un brandello di verità sulla “fabbrica dei sogni”. Speedman è un parodia di divi come Chuck Norris, Sylvster Stallone, Steven Seagal o Jean Claude Van Damme, costretti bene o male per tutta la carriera o quasi ad interpretare lo stesso ruolo, con sempre minor successo. Portnoy è un comico vittima di eccessi come lo fu John Belushi, di cui Black crea un omaggio affettuoso. Con il rapper Alpa Chino, Jackson plasma una deformazione della macho culture della black community, mentre Sandusky appare forse il più debole dei quattro, la fama ancora non ce l’ha, la agogna e basta con gli occhi di Baruchel. Su ognuno di loro Tropic Thunder crea quindi una parodia nella parodia, che dal Vietnam abbraccia gli attori feticcio, l’alto e il basso, il popolare e l’autoriale di un mondo fatto di apparenza, di falsità. Questo riguarda soprattutto Kirk Lazarus e Les Grossman. Con Kirk Lazarus, Stiller e Downey Jr. si presero un rischio non da nulla. In quel 2013 mettere in scena una blackface, ricordando una pratica così vergognosa, già non era roba da poco. Eppure il risultato è geniale, esilarante, rappresenta l’estremizzazione di un artista incapace di comprendere il limite tra legittimo e ridicolo. Da De Niro a Daniel Day Lewis, da Tom Hardy fino a Joaquin Phoenix, il method actor è diventato un mito, qui messo alla berlina, distrutto.
Il Les Grossman di un Tom Cruise scatenato, volgare, dispotico e senza alcun freno, è l’altro jolly assoluto di questo film. In lui il divo di Top Gun creò un ritratto non così irreale di tutta una serie di potenti uomini del cinema, tra il famigerato e il leggendario, veri e propri Signori della Guerra capaci di ogni nefandezza. Tropic Thunder ne esalta carisma, parlantina spinosa e movenze da macho grossolano, mentre intanto distrugge la sacralità dell’orrore della guerra rievocata dietro la macchina da presa, in realtà pornografia sanguinolenta per un pubblico che non è migliore di quel cast.
Il cinema verità è una bugia, come lo sono le imprese di Tayback, l’eterosessualità di Chino e via via ad includere tutti gli altri. “La menzogna è un lubrificante della vita” aveva detto diversi anni prima Marlon Brando, attore feroce con la sua categoria e il suo mondo. Tropic Thunder si aggancia a tutto questo con violenza quasi, mentre vediamo gli attori mentire gli uni agli altri, poi a se stessi, poi ai guerriglieri prima di dover ammettere la verità: sono patetici come ogni altro essere umano, si sopravvalutano, si nascondono dalla loro mediocrità senza successo, ma non sono senza speranza. Questo lo capiscono nel momento in cui mettono da parte la recitazione inutilmente complessa e fanno ciò che fa veramente un vero attore: usare la realtà per creare finzione.
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di Giulio Zoppello www.wired.it 2023-08-13 04:20:00 ,