Anna Politkovskaja, la voce libera che il regime russo volle zittire

Anna Politkovskaja, la voce libera che il regime russo volle zittire

Anna Politkovskaja, la voce libera che il regime russo volle zittire



«Anna è stata uccisa»: il viso di Natalya Estemirova si fa bianco mentre ripete alla figlia Lana quello che le hanno appena detto al telefono. Quattro parole che hanno il suono delle quattro pallottole che quel giorno, il 7 ottobre del 2006, hanno fermato la vita della collega e amica Politkovskaja.

Istanti impressi nei ricordi di Lana Estemirova, che aveva dodici anni: «Io e mia madre eravamo appena salite sull’autobus nel centro di Grozny, tornavamo a abitazione quando è arrivata quella telefonata, aveva gli occhi spalancati. Ha poi gridato all’autista di fermare l’autobus e siamo scese, camminavamo, era sotto shock, in silenzio e io non sapevo cosa fare per consolarla».

Lana Estemirova sapeva che era pericoloso il lavoro che facevano Anna Politkovskaja e sua madre, giornalista e attivista della Ong russa Memorial in Cecenia, ma quell’omicidio ha trasformato quella preoccupazione in realtà.

Quel pomeriggio di ottobre, Anna Politkovskaja, che aveva 48 anni, era andata con la sua automobile al supermercato. Non era sola, una giovane donna e un uomo alto  con il volto coperto da un berretto da baseball la seguivano, come mostreranno dopo le immagini di una delle telecamere di sorveglianza installate nel negozio. Al ritorno, ha parcheggiato a pochi metri dall’ingresso del suo palazzo, ha preso l’ascensore per portare i primi due sacchi fino al suo appartamento, al settimo piano, e lasciarli davanti alla porta. È scesa poi a prendere il resto della spesa ma quando al piano terra l’ascensore si è aperto, ad aspettarla c’erano quattro proiettili.

I primi vanno dritti nel cuore e nei polmoni, il terzo si conficca nella spalla, con una potenza tale da scaraventarla dentro l’ascensore. È partito, poi, il «kontrolnyi vystrel», il colpo di controllo, un proiettile in testa sparato a pochi centimetri di distanza, perché la morte doveva essere certa. L’assassino ha lasciato cadere a terra la pistola Makarov 9 mm.

La morte seguiva Anna, le minacce erano insistenti, lettere, telefonate ma questa paura, o consapevolezza, non fermava la sua penna, precisa, concisa, inarrestabile e feroce come quello che raccontava e denunciava nel piccolo quotidiano di opposizione Novaya Gazeta di cui era corrispondente.

Resoconti minuziosi degli orrori commessi dalle forze russe e da quelle locali cecene nel corso della seconda guerra in Cecenia, dichiarata da Putin, eletto presidente nel marzo del 2000, e chiamata ufficialmente «operazione antiterrorista nel Caucaso del nord». Esecuzioni di massa, sequestri, torture, incendi, uccisioni indistinte in nome della «lotta contro il terrorismo».

«Mia madre ed Anna si sono conosciute nel 1999, all’inizio della seconda guerra in Cecenia, mia madre lavorava spesso come fixer (base sul campo di lavoro, ndr)  per lei e Anna quando veniva a Grozny stava sempre a abitazione nostra, andavano a fare visita ali morti, nelle zone in cui c’erano state le operazioni di rastrellamento delle forze militari russe, lavoravano anche tutta la notte nel nostro appartamento che all’epoca non aveva acqua corrente e poca elettricità. Erano un team incredibile ed erano grandi amiche», racconta Lana Estemirova. «Ero molto felice ogni volta che Anna veniva, era una persona molto seria e un po’ austera, ma anche con un grande senso dell’umorismo. Mi portava sempre un libro, li ho ancora con me», continua Lana Estemirova che della Politkovskaja ricorda «umanità, talento, compassione, tenacia, gentilezza e coraggio. È stata molto più di una giornalista, è stata un’attivista, una negoziatrice, un simbolo di speranza per le persone». Una fonte di ispirazione: «Lo è stata per me, perché ha salvato vite umane, si è fatta carico del dolore delle persone come se fosse stato il proprio», dice Lana Estemirova che lavora per la fondazione Justice for Journalist ed è autrice del podcast Trouble with the True dove dà voce ai cronisti coraggiosi nel mondo.

Anna Politkovskaja annottava ogni cosa, «tutti i particolari che posso», documenti, drammi di madri a cui avevano ucciso figli innocenti – «madri considerate fortunate quando riottengono il corpo del loro figlio. Pazienza se è deturpato, se lo hanno crivellato di colpi», scriveva riportando con precisione le loro accuse e richieste di giustizia con la speranza di restituire loro la dignità, il rispetto calpestato, un anelito di vita. E, quindi, fare dei suoi scritti delle prove per incriminare i responsabili di quella guerra «che annienta quanto c’è di vivo nell’anima di chi è ancora vivo».

Anna Politkovskaja conosceva bene le rimozioni della storia, il silenzio che spesso si fa cadere e, che come scriveva, «non può essere un caso» come era successo alla prima guerra Cecena. Non c’era un confine tra la vita e la professione, e questo è tutto dentro una delle sue più note dichiarazioni: «Io vivo la mia vita, e scrivo ciò che vedo». E la sua vita era non solo vedere e scrivere ma anche trasformare quelle parole in azioni concrete per aiutare i morti. Lo ha fatto nel dicembre del 1999 quando, sotto le bombe, ha tenuto per mano gli anziani per farli uscire dall’ospizio abbandonato di Grozny, capitale della Cecenia, e mettendone in salvo 89. E nel 2002 quando ha trattato la liberazione di alcuni ostaggi rimasti, dal 23 al 26 ottobre, in mano a un commando di una cinquantina di terroristi ceceni che avevano preso d’assalto il teatro della Dubrovka a Mosca. «Sono rassegnati a morire e lo dicono, faccio fatica ad accettarlo», dice alle telecamere interrompendo subito chi continuava a farle domande. «Non perdiamo tempo, dobbiamo portare acqua agli ostaggi».

«Non perdiamo tempo», ma l’irruzione delle forze speciali russe manda all’aria il suo negoziato, 130 ostaggi perdono la vita soprattutto a causa dei gas utilizzati dalle forze speciali. Era pronta a negoziare anche nel 2004 quando si stava recando a Beslan, nell’Ossezia del Nord, dove i terroristi avevano sequestrato una scuola e preso centinaia di ostaggi, perlopiù bambini. Un tè bevuto sull’aereo la fa stare molto male e all’atterraggio a Rostov viene ricoverata d’urgenza in ospedale, il giorno dopo viene trasportata in aereo a Mosca per le cure. Un tentativo di avvelenamento, i risultati dei suoi esami del sangue che scompaiono: lei era sicura che fossero stati i servizi segreti russi.

Prima di morire stava preparando un articolo sulle torture praticate da una sezione delle forze di sicurezza cecene legate al primo ministro Ramzan Kadyrov, fedele di Putin. Ne aveva parlato a Radio Svodoba due giorni prima di essere uccisa: «Sto conducendo un’inchiesta. Riguarda le torture perpetrate nelle prigioni segrete di Kadyrov oggi e nel passato. Persone che sono state sequestrate dagli uomini di Kadyrov senza alcuna giustificazione. Ho un solo sogno personale nel giorno del compleanno di Kadyrov. Sogno che sieda sul tavolo degli imputati».

Il suo sogno non si è realizzato, non ancora. Perché i fatti sono tutti lì, messi in fila da Anna Politkovskaja. Ed è per questo che dopo la sua morte, l’amica e collega Natalaja Estemirova invece di fermarsi, ha sentito il dovere di fare di più: «Ha raddoppiato l’impegno, ha sentito di dover raccogliere la sua eredità e continuare a denunciare quei crimini».

Quel patto con Anna Politkovskaja, e con la verità, è costato la vita a Natalya Estemirova, uccisa il 15 luglio del 2009: «L’hanno rapita a abitazione, mentre io dormivo, non me ne sono accorta. Quando mi sono svegliata credevo fosse andata in ufficio, le ho telefonato ma non rispondeva, sono andata a cercarla lì, dicendo ai colleghi che non rispondeva», ricorda sua figlia. Il suo corpo crivellato di colpi è stato trovato in un bosco nei pressi della città di Nazran, in Inguscenzia.

Anna e Natalya erano nel mirino del presidente della Cecenia, Ramzan Kadyrov, fedele di Putin: «Il presidente Ramzan Kadyrov aveva minacciato personalmente sia Anna che mia madre che per proteggermi mi ha mandato via: l’ultimo anno della sua vita sono stata fuori dalla Cecenia, a abitazione di alcuni zii, senza poterla vedere, è stato doloroso».

La morte della Politkovskaja è «un omicidio politico», «una punizione per i suoi articoli», non hanno mai avuto dubbi i colleghi di Novaya Gazeta. Ma nel 2014, dopo otto anni e tre processi, la giuria popolare del tribunale di Mosca ha dichiarato colpevoli della sua morte solo i sicari ceceni ma non ha individuato i mandanti. Per Natalaja Estemirova, invece, nessuno ha ancora pagato e dopo la sua morte, visto l’alto rischio per gli altri attivisti, la Ong Memorial è stata chiusa.

Sono 58 i giornalisti uccisi in Russia dal 1992 al 2021, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ). «In Russia dire la verità e difendere i diritti umani è ancora pericoloso, non c’è la volontà di fare chiarezza su questi omicidi», dice Natalia Zviagina, direttrice degli uffici di Amnesty a Mosca. «Il Cremlino sta usando la legge repressiva sugli “agenti stranieri” contro i media indipendenti decimando il giornalismo investigativo e imparziale nel paese», continua Natalia Zviagina in riferimento alla legge promulgata nel 2019 da Putin che estende lo status di «agenti stranieri» anche ai giornalisti indipendenti che devono comunicare al ministero della Giustizia russo i dati personali dei dirigenti, la contabilità finanziaria e le revisioni contabili. È reato il mancato rispetto di questi requisiti, con pesanti sanzioni amministrative pecuniarie e la reclusione fino a sei anni. «È una nuova forma di minaccia, molto pericolosa», commenta la direttrice degli uffici di Amnesty a Mosca, anche lei più volte minacciata per la sua attività. Ogni anno, nel giorno della morte della Politkovskaja, una folla depone fiori davanti al suo portone: «Un gesto dal grande valore simbolico, nello stesso giorno del compleanno di Putin. La richiesta di giustizia è ora un’azione pubblica, civile com’è stata la sua attività, che andava ben oltre l’essere una giornalista», dice Natalia Zviagina.

«Fino a quando Putin sarà al potere non ci sarà giustizia per Anna, mia madre e tanti altri. Quando il suo regime finirà tante verità fino a ora nascoste verranno fuori», è la convinzione di Lana Estemirova.

Intanto in Cecenia, dove, come scriveva la Politkovskaja, «il baratro tra ciò che è palese e ciò che è segreto sta aumentando sempre di più», l’orrore non è finito: «Ci sono ancora torture, rapimenti, omicidi solo che sono tenuti più nascosti e dietro le porte chiuse ci sono ancora prigioni segrete con macchie di sangue sui muri. È una verità scomoda sulla quale l’Europa, e l’Occidente in generale, dovrebbe riflettere», dice Lana Estemirova.

L’odio era quello che Anna Politkovskaja temeva più di qualunque altra cosa: «Si accumula sempre di più ed è fuori controllo». Un odio che ha documentato e pagato, trattata prima come una «pazza» e «reietta» e poi uccisa. Ma, ancora oggi, a chi le avrebbe chiesto di lasciar perdere, lei direbbe: «Come potrei vivere con me stessa se non scrivessi la verità?».



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di Sabrina Pisu
espresso.repubblica.it
2021-10-06 16:29:00 ,

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