Che cos’è la Global minimum tax e perché è così importante

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Dal primo gennaio 2024, è in vigore la Global minimum tax, una nuova imposta minima del 15% applicabile a tutte le multinazionali con un fatturato annuo di almeno 750 milioni di dollari. L’accordo, stipulato nel 2021 da oltre 130 Paesi – di cui fanno parte tutti gli Stati Ue ma anche Regno Unito, Norvegia, Australia, Canada, Corea del Sud e Giappone – mira a contrastare la concorrenza fiscale (o dumping fiscale), fenomeno che ha spinto molte aziende a collocare la propria sede principale nei paesi con aliquote fiscali più convenienti. Nel tempo, ciò ha portato alla concentrazione di aziende in nazioni con tasse estremamente basse, come nel caso di Amazon in Lussemburgo o di Apple in Irlanda. Al momento, due Stati membri dell’Ue hanno aliquote per le imposte sulle società inferiori al 15%: Ungheria (9%), Bulgaria (10%); Irlanda e Cipro sono di poco sopra la soglia (12,5%).

In Italia, la normativa sulla Global Minimum Tax è stata recentemente introdotta attraverso un decreto legislativo in conformità con la direttiva 2022/2053 dell’Unione europea. Questa direttiva introduce diverse regole per contrastare le strategie delle multinazionali volte a eludere le imposte nazionali. La più importante delle quali è l’Income inclusion rule (Iir), che impone alle società di pagare un’imposta aggiuntiva se le sue controllate estere hanno tassi fiscali inferiori in paesi a bassa imposizione. Le società madri devono quindi coprire la differenza tra il 15% e la tassazione inferiore pagata dalle controllate estere. In pratica se un’azienda in un paradiso fiscale paga solo il 5% di tasse, chi la controlla dovrà aggiungere almeno un altro 10% di tasse per raggiungere un totale del 15%.

L’altro pilastro della norma è più specificamente giuridico. E prevede che il potere di tassazione passi agli Stati di commercializzazione in cui un’azienda lavora, cioè ai paesi in cui risiedono i consumatori che acquistano servizi e beni di quell’azienda. Questo principio colpisce le big tech su tutti: ad oggi, infatti, i grandi nomi dell’economia digitale, da Amazon a Meta, approfittando di produrre valore esclusivamente virtuale, non tangibile, finiscono per pagare le tasse nel paese in cui registrano il proprio quartier generale e non, anche, in tutti i paesi in cui gli utenti finali acquistano il servizio offerto. Ora le imprese con fatturato mondiale superiore a 20 miliardi di euro e un margine di profitto del 10% sono considerate tassabili anche sulla quota di profitto realizzato nei paesi in cui vendono i loro servizi. In altre parole, la novità della nuova tassa sta nel considerare l’attività economica complessiva del gruppo come elemento chiave per la tassazione, indipendentemente dalla sua presenza fisica in un particolare paese. Dunque, anche in assenza di uffici, filiali, o stabilimenti produttivi all’interno di una certa giurisdizione, le imprese cosiddette “non residenti” potranno essere sottoposte e tassate secondo le regole di giurisdizione del paese in cui agiscono.

La Global Minimum Tax può portare vantaggi evidenti. Secondo l’Ocse, tra i principali artefici dell’accordo, le nazioni coinvolte dovrebbero ottenere un gettito fiscale aggiuntivo di 220 miliardi di dollari. In Italia, si prevede un guadagno di 381,3 milioni nel 2025, oltre i 400 nel 2026, e vicino ai 500 nel 2033 (dati stimati dalla Cgia di Mestre, basati sul Servizio Bilancio della Camera). Ma, nonostante l’accordo storico, ci sono ancora dubbi su quanto sia efficace. Ad esempio, la Svizzera ha modificato la sua costituzione per applicare una tassa del 15%, ma ci sono ancora benefici fiscali e eccezioni per le multinazionali con investimenti diretti. Inoltre, sia la Cina che gli Stati Uniti hanno scelto di non adottare questa tassa, aggiungendo ulteriori incertezze al quadro complessivo.



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di Riccardo Piccolo www.wired.it 2024-01-04 11:32:18 ,

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