Il veto su Tim e la lettera inedita contro Open Fiber: così la banda larga resta una chimera per l’Italia

0


Ci si è interrogati così a lungo sulla necessità, ma che dire, l’urgenza, di dotare l’Italia di una rete unica telefonica per la banda larga, ma che dire, ultra larga, per le connessioni a internet, che finalmente si è capito che questa rete unica telefonica non verrà fatta. Almeno non subito. Il governo di Mario Draghi ha l’urgenza, stavolta per davvero, di costruire una rete telefonica per la banda ultra larga, poi si vedrà se parzialmente unica o completamente unica. Ci sono 7 miliardi di euro di risorse europee per la pandemia per la fibra ottica e il mobile di quinta generazione, l’acclamato 5G. Ci sono statistiche ufficiali impietose, come il 17 per cento degli istituti scolastici con la fibra o come il 22 per cento degli italiani con internet a una velocità di livello occidentale. Ci sono una miriade di colpe che si ammassano e si mescolano da un quarto di secolo. Dal giorno in cui Telecom fu privatizzata.

Vittorio Colao

 


«La banda larga è una infrastruttura», è l’esergo scolpito dal presidente americano Joe Biden per annunciare un investimento di 100 miliardi di dollari. Qui la banda larga o ultra larga è un ginepraio di miseri interessi, di aziende decotte, di concorrenze spietate. Non si può decidere in fretta perché in fretta non si riesce neppure a elencare i protagonisti della vicenda: Tim di Luigi Gubitosi, l’amministratore delegato italiano che ha i francesi di Vivendi come principale azionista in comunione con la pubblica Cassa depositi e prestiti (Cdp), che ha l’altra quota più rilevante; FiberCop di Tim, Fastweb e del fondo americano Kkr; Open Fiber di Cdp e, non saldamente, di Enel di Francesco Starace perché Enel sta per cedere la sua metà al fondo australiano Macquarie, poi frattaglie varie, antipatie miste. Ciò premesso, il governo di Draghi, prima di fare, ha disfatto i piani dell’ultimo governo di Giuseppe Conte definiti non più tardi dell’agosto scorso: non esiste l’ipotesi di creare una società statale della rete unica telefonica con la maggioranza a Tim controllata dai francesi; Palazzo Chigi deve indirizzare il denaro europeo per offrire a chiunque o ovunque la cittadinanza digitale, non assecondare strategie finanziarie che fanno lievitare soltanto le retribuzioni dei manager; non c’è un vincolo divino che impone di sopportare i ritardi di Open Fiber con la posa della fibra nelle zone più periferiche e più interne d’Italia, le cosiddette aree bianche, a fallimento di mercato, dove internet arriva con i contributi pubblici. Attorno alle operazioni del governo, al momento lente come l’Adsl, si muove famelica la Vivendi di Vincent Bolloré, lo squalo, che ha adocchiato una nuova preda – Mediaset e proprio Tim, le altre, gli sono andate di traverso – nel gruppo Sky Italia che ha già stufato gli attuali proprietari di Comcast.

Luigi Gubitosi, amministratore delegato di Telecom

 (ansa)


UN DOSSIER A TRE TESTE
Si occupano di banda larga, pardon ultra larga, tre ministri: Daniele Franco, Tesoro; Vittorio Colao, Innovazione; Giancarlo Giorgetti, Sviluppo Economico. Due tecnici e un politico. Però il politico leghista più vicino a Draghi. Colao ha fantasia e ambizioni perché ha una profonda conoscenza del settore con i suoi vent’anni in Vodafone. Alla Camera ha fissato il miraggio, parlare di obiettivo è troppo ordinario, di una connessione a un giga per ciascun italiano entro cinque anni. Per coprire ogni angolo d’Italia, Colao è disposto a fare decine di bandi coinvolgendo decine di società (altro che rete unica) oppure anche, e soprattutto, a utilizzare i ripetitori per il 5G. Giorgetti e pure Franco sui ripetitori sono scettici: costano e inquinano di più, innescano baruffe legali e proteste dei cittadini.

PARIGI IN THE SKY
I tre ministri sono d’accordo su un punto: Tim francese non avrà mai la rete unica telefonica. Gubitosi lo sa, l’ha sempre saputo. Ha lavorato per ridurre il debito, i dati più recenti lo collocano a 23,3 miliardi di euro, e per svecchiare la rete che ancora indossa il rame. Gubitosi ha allestito il contenitore FiberCop per aumentare la fibra di Tim con 1,754 miliardi di euro degli americani di Kkr (detengono il 37,5 per cento) e l’apporto degli svizzeri di Fastweb: il progetto prevede di cablare 1.610 comuni e circa 13 milioni di abitazioni in quattro anni con un esborso totale di 4,6 miliardi di euro. I francesi di Vivendi osservano silenziosi le manovre del governo Draghi. Filosofeggiare sulla cittadinanza digitale li annoia. Ancora ripensano alle rassicurazioni ottenute da Conte e i suoi ministri: pazientate, vi aiuteremo a risolvere i guai con Mediaset. Quanto ci ripensa Arnaud de Puyfontaine, l’amministratore delegato. Il capo Bolloré e de Puyfontaine devono recuperare i 5 miliardi di euro che hanno impegnato in Italia e che sono incagliati in Tim e soprattutto in Mediaset. Con la famiglia Berlusconi, di cui sono soci mal sopportati, il contenzioso legale va avanti da anni e ogni tanto si prepara una bozza di pace e poi la si distrugge. I Cinque Stelle invocavano la scalata di Cdp in Tim per estromettere i francesi. Al contrario, Vivendi può accompagnarsi da sola alla porta. Se scopre dov’è. Un indizio affiora dal patto che Gubitosi ha stretto con la multinazionale Dazn. Con 840 milioni di euro annui promessi ai patron di Serie A, di cui circa un terzo garantiti da Gubitosi, Tim e Dazn si sono aggiudicate l’intero campionato di calcio. Se non rimedia all’errore, Sky Italia rischia la fuga di un paio di milioni di clienti e tagli ancora più pesanti in azienda. Oggi Sky Italia vale poco. È deprezzata. La condizione ideale per Bolloré, nel doppio ruolo di padrone di Vivendi e azionista di riferimento di Tim, per chiedere agli americani di Comcast se vogliono vendere. Poi la rete telefonica, unica o meno, la lascia volentieri allo Stato. Col solito “nessun commento”, Vivendi non conferma né smentisce l’attrazione per Sky Italia. No, non smentisce. La porta per Vivendi, dunque, sta sempre dove si producono e si smerciano contenuti televisivi.

ALTRO CHE OPEN
La relativamente giovane storia di Open Fiber sembra già vecchia come i rimpianti sulla privatizzazione di Telecom. Fu lanciata con vorace rapidità dal governo di Matteo Renzi per realizzare una rete internet in fibra in particolare nei luoghi più impervi d’Italia e fu affidata a salde mani pubbliche con Cdp e Enel. Starace si imbarcò nell’impresa convinto che mettere contatori della corrente elettrica e stendere chilometri di fibra fosse lo stesso mestiere. Si è riavuto presto e da più di un anno sta lì, sull’uscio, per mollare il 50 per cento di Open Fiber al fondo australiano Macquarie a una cifra che oscilla fra i 2,4 e i 2,6 miliardi di euro. Ha dichiarato che si chiude entro giorni o forse entro mesi o comunque entro il 31 dicembre 2021. Cdp e lo Stato attendono i calcoli di Starace che, con calma, pregusta una plusvalenza di oltre 1,5 miliardi di euro per Enel, senza curarsi della mesta sorte in cui è incappata Open Fiber. Per inaugurare i cantieri nelle province d’Italia, foraggiati da finanziamenti pubblici attraverso i tre bandi conquistati, Starace impose Elisabetta Ripa alla guida di Open Fiber nel novembre 2017. A oggi i cantieri terminati, rispetto alle previsioni del piano nazionale per la banda ultra larga (Bul) già slittato al 2023, sono un quinto del totale. Invece è molto più serrata la competizione con Tim nelle metropoli. Il bilancio 2019 di Open Fiber ha registrato 117 milioni di euro di perdite e 1,6 miliardi di debito. Il giudizio più severo l’ha emesso Infratel, la società del ministero per lo Sviluppo Economico che monitora le concessioni pubbliche di Open Fiber, con una lettera del 1° aprile spedita a Ripa e al presidente Franco Bassanini: «A fronte degli 845-925 progetti esecutivi ftth (fibra) pianificati, abbiamo ricevuto», si legge nel documento consultato dall’Espresso, «solo 248 progetti. Dei 763 comuni da completare nel primo semestre, soltanto 270 comuni sono stati completati». Open Fiber sbriga le pratiche di un mese in quasi due mesi: «La produzione media mensile nel trimestre di riferimento», ha scritto Infratel, «è pari a 19 milioni di euro, a fronte della media mensile di 35 milioni di euro, necessaria per assicurare il completamento del piano Bul al 2023. Inoltre, nonostante i ripetuti solleciti, siamo ancora in attesa dei progetti integrativi per circa 230 comuni, in cui non sono stati raggiunti gli obiettivi di unità immobiliari posti a gara».


Open Fiber non ha funzionato e le banche la irrorano di liquidità perché è proprietà dello Stato e lo Stato è un buon debitore, Tim è parecchio attiva e però ha il fardello del debito, Vivendi rimane in Tim sognandosi altrove, Starace migliora le sue prestazioni in Borsa e si sottrae alle responsabilità su Open Fiber, Cassa depositi e prestiti è alla vigilia del rinnovo dei suoi vertici e non è soddisfatta di Open Fiber. I ministri faranno una convocazione di massa ai ministeri per studiare dove e come indirizzare i 7 miliardi di euro per fare la banda ultra larga. Cioè la rete, non la rete unica. C’è già apprensione: se tutti si collegano a internet può cadere il segnale.



Source link

Leave A Reply