“O direttore mio direttore”. Un maestro in redazione

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Bisogna partire da qui, dalla sua stanza. Al sesto piano di Largo Fochetti, in fondo al corridoio della Cultura, accanto alla stanza di Ezio Mauro. È come se Scalfari fosse appena uscito o da poco entrato, tutto è come sempre, il grande tavolo di vetro, l’autografo di Totò, il sorriso complice con Carlo Caracciolo, la foto con la moglie Simonetta, i Meridiani blu. Bisogna partire da qui, lottando con la nostalgia, per ricordarlo con le “nostre” parole, tessendo memorie, testimonianze, affetti. Gli infiniti racconti della “sua” redazione, quella nata nel palazzone di piazza Indipendenza, e le generazioni arrivate dopo, fino ai colleghi più giovani, ancora stupiti di incontrarlo, quando ancora veniva al giornale, accompagnato, sottobraccio, dolcemente, dal suo fedelissimo autista Dario.

Una giornata sospesa e segnata dal lutto. Fabio Tonacci è alla sua scrivania, in Cronaca Nazionale, da poco è tornato dall’Ucraina. “La prima volta che ho visto Scalfari era su una mensola della mia camera. Mio padre aveva la raccolta di tutti i suoi articoli, “perché Repubblica è un giornale meraviglioso”, mi diceva. Nel 2010 mi sono ritrovato nel giornale meraviglioso. Da qualche parte c’è la stanza di Scalfari, mi dissero. Ma i giganti intimoriscono, fanno volare e lasciano cicatrici. Non ho mai bussato a quella porta. Nel 2020 Scalfari venne in assemblea un’ultima volta. Piegato dalla vecchiaia, era sempre lui: intellettualmente dritto come un fuso, inarrivabile come una mensola appesa troppo in alto”.

Ed è sempre la stanza di Eugenio che torna nei frammenti di ieri e di oggi, sospesi tra il sorriso e il dolore, con il senso di aver appartenuto e di appartenere a una storia speciale. “Era il 1984 – racconta Daniele Mastrogiacomo, uno dei giovanissimi di piazza Indipendenza – fui mandato dalla Cronaca a fare un servizio su uno sciopero dei medici al Policlinico. Avevo appena finito di scrivere e ricordo distintamente la voce di Scalfari nell’interfono: mandatemi il cronista del pezzo sui medici. Entrai e il direttore, guardandomi, buttò il mio pezzo nel cestino. E mi spiegò per filo e per segno perché quell’articolo era sbagliato: non avevo spiegato le ragioni politiche di quello sciopero, cosa c’era dietro quella protesta. Riscrissi tutto daccapo e non ho più dimenticato quella lezione”.

Essere coscienti di un’avventura irripetibile. Di far parte di un quotidiano che aveva un’anima diversa da ogni altra. Essere nuovi, come il formato tablet o il paginone della Cultura planato al centro del giornale. Giuseppe Smorto, a lungo a capo dello Sport poi del sito di Repubblica, dice, addirittura, «anche 40 anni dopo continuo sognare il Direttore». “Mi parla di un titolo, di un’inchiesta, del giornale che ha chiuso troppo tardi. Sta dentro di noi, specialmente quelli cresciuti in via dei Mille, un padre, un maestro”. Dario Olivero, oggi capo della Cultura, esponente, come Fabio Tonacci della “nuova generazione”, smussa la nostalgia con l’ironia. “Ezio Mauro voleva che dirigessi la Cultura, però mi convocò dicendomi: “Prima devi passare da Eugenio, ti vuole conoscere”. Andai nella sua stanza, intimidito e incuriosito. Scalfari fu gentilissimo, mi offrì una sigarettae parlammo di Shakespeare. Dopo una citazione dall’Enrico V, capii che l’esame era passato». Ed è infatti con una frase di Shakespeare «vi lascio il rosmarino per i ricordi, le viole per i pensieri» che il 3 maggio del 1996 «dopo vent’anni, tre mesi e due giorni», Scalfari cede il posto a Ezio Mauro, che guiderà con passione e tenacia Repubblica per altri vent’anni. Una valanga di ricordi, affidati alla memoria di alcuni colleghi, per rappresentarli tutti.

Lievi le parole di Fausta Mattei e Stella Somma, della segreteria di direzione. “Negli ultimi tempi spesso chiamava per parlare di musica. Ricordava le melodie ma non i titoli. Quindi intonava le note, citava l’autore e chiedeva di trovare il titolo dell’opera o della canzone. Una delle ultime che chiese era il Requiem di Mozart. Lo canticchiava, diceva che ne era stato fatto un film. Quando poi gli mettemmo la musica era contento e cantava con il coro. Si faceva grandi risate sulla facilità con cui sul web si riusciva a trovare quello che lui chiedeva con estrema velocità. Quando telefonò Papa Francesco:  “Direttore le passiamo il Papa”.  E lui rispose: “Ma che dite?” Dovemmo insistere non poco per convincerlo, ebbe fiducia e si fece passare la telefonata. E da lì cominciò la loro lunga amicizia”.

Laura Laurenzi, anche lei entrata giovanissima a Repubblica e firma storica della “cronaca bianca”, sottolinea la soggezione che si provava davanti a Barbapapà.  “Ho sempre pensato che Scalfari avesse un grande carisma, un po’ libertino. All’inizio mi metteva persino soggezione e faticavo a dargli del tu. Ma rapidamente mi fu chiaro quanto fosse importante per lui il senso dell’umorismo, il suo e quello altrui, se non ridere quanto meno sorridere. Non credo ci sia stato un direttore che abbia valorizzato così tanto le firme femminili. In una riunione che lui chiamava “Messa cantata” annunciò che stava per affidare un’inchiesta molto complicata a Miriam Mafai: “Siccome è un pezzo difficile voglio che lo scriva una donna”, disse”.

Alessandra Longo, a lungo inviata del Politico: «Aveva la straordinaria capacità di far sentire tutti importanti. Anche gli ultimi arrivati potevano ricevere idealmente da lui il “bastone del maresciallo”. Complimenti e alzate di sopracciglio. Tutto scolpito nella pietra. Siamo stati molto fortunati». Silvana Mazzocchi, cronista di giudiziaria negli anni più duri del terrorismo.  «Mi ha insegnato che il giornalismo è anche passione. Che è necessario avere il coraggio dell’anticonformismo e che bisogna rischiare per informare».

Carlo Bonini, vicedirettore di Repubblica: “Porterò sempre con me le risate cristalline, come di un bambino, con cui alle sei del pomeriggio del sabato, Eugenio interrompeva e giocava con il discorso che intrecciavamo al telefono e gli leggevo il titolo scelto per il suo editoriale. Quelle risate erano manifestazione colta di curiosità e stupore. Un rito che trasmetteva fisicamente il senso di appartenenza a questa dimora”. Angelo Rinaldi, anche lui vicedirettore di Repubblica: “Grazie direttore per aver desiderato, pensato, amato e costruito questo grande giornale. E per averne condiviso le passioni umane e professionali”.

Piero Colaprico, ex capo della redazione di Milano.”Con Scalfari ci si sentiva sicuri. Eravamo negli anni ’80 e a Milano venne scoperto l’ultimo covo delle Brigate Rosse. Avevamo la notizia in esclusiva, venne messa d’apertura e, quando un importante collega romano propose di affiancarmi, Scalfari disse: “Colaprico l’ha trovata, va avanti lui anche se è un cronista”. Rispettava moltissimo il lavoro, esisteva una grande trasparenza negli incarichi e un controllo di qualità altissimo. Durante Tangentopoli, con lui al timone era difficilissimo sbagliare. Gli sarò sempre grato per il clima che aveva creato, e anche per la sua gentilezza”.

Marco Ruffolo, già capo dell’Economia torna con la mente ad un periodo difficile, ad una frattura.  “Dopo la vendita del pacchetto azionario dell’Espresso a Carlo De Benedetti, scrissi una lettera a Scalfari dolendomi del fatto che con quella cessione finiva il doppio sogno di un editore puro (Caracciolo) e di un direttore comproprietario del proprio giornale (Scalfari stesso). Subito dopo avergli inviato la lettera, mi pentii di questa mia iniziativa forse troppo ardita e inopportuna. Temevo una sua risposta dura, o peggio ancora il più assoluto silenzio. Non fu così. Mi arrivò una sua lunga lettera nella quale mi spiegava i motivi di quella scelta: senza quella vendita, Repubblica semplicemente non sarebbe sopravvissuta. Concluse ricordandomi affettuosamente che l’indipendenza di un giornale sta nella tenuta etica e nella capacità professionale dei suoi giornalisti, a cominciare dalla figura del direttore”.

Marco Patucchi, vice caporedattore degli Interni, era accanto a Scalfari nell’ultima assemblea dei giornalisti a cui il inventore, a già assai malato e provato, si presento a sorpresa, accolto da un applauso che non voleva finire. “Lui non c’è più, ma continuerà a vivere in tutti noi e nelle generazioni successive di giornalisti alle quali, mentre Repubblica cambiava pelle, abbiamo trasferito la storia e l’anima del giornale. Chissà se sarà sufficiente il nostro impegno. Senza di lui sarà più difficile. Ma glielo dobbiamo. Senza di lui nessuno di noi sarebbe quello che è”. E nessuno busserà più alla sua stanza del sesto piano.

 



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[email protected] (Redazione Repubblica.it) , 2022-07-14 22:44:46 ,www.repubblica.it

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