«Mia figlia Martina Rossi è stata uccisa due volte: da chi voleva stuprarla e da questa giustizia»

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Ha ritrovato la speranza, Bruno Rossi, ma la sua, «la nostra» – dice – è una «giustizia sfiorita». Occhi stanchi, voce esausta, questo ottantunenne genovese sono quasi dieci anni che lotta per ridare pace alla memoria della figlia Martina, ritrovata senza vita nel cortile di un hotel di Palma di Maiorca il 3 agosto del 2011, poco più che ventenne. Morta dopo essere precipitata da un terrazzo del sesto piano, in fuga da un tentativo di stupro di gruppo in una stanza d’albergo, e «uccisa due volte» – è la convinzione dei suoi genitori – da un processo dalla storia travagliata e infinita, per la quale una vera parola fine potrebbe non arrivare mai.

La Corte d’Appello di Firenze questa settimana ha condannato in appello alla pena di tre anni i due ragazzi toscani imputati, sulla ricerca di verità e giustizia di questa famiglia pesa infatti la possibilità concreta che tutto finisca in prescrizione in agosto. «Stessa cosa di tante altre storie, tante altre ingiustizie». Stessa cosa pure per il processo “costola” in corso a Genova, imputati i testimoni accusati di falsa testimonianza sulla vicenda, che ripartirà da zero dai primi di maggio. Motivo per cui pare così amaro il parziale conforto di questi giorni, e soprattutto la spinta che ha portato questo padre privato dell’unica figlia a fare del suo lutto personale uno strumento di lotta collettiva. Un’occasione per «provare a costruire un mondo migliore, quello che sognavo da ragazzo, di libertà vera per le donne e legge uguale per tutti, ma per davvero». 

Le lotte che porta avanti nel nome della figlia, del resto, anche con tutto il peso di dieci anni di sofferenza sulle spalle, Bruno Rossi le sa inquadrare ancora con la chiarezza di chi ha una storia di lavoro, militanza, solidarietà.

«Come possiamo accettare, da uomini, una società dove la violenza di genere fa così parte del quotidiano?». «Cosa c’è di più ingiusto – insiste – di una giustizia ad personam, dove chi ha mezzi e denaro è più tutelato, e chi non può molto meno?». Lui che di professione è stato camallo, uno di quei portuali del porto di Genova che per decenni hanno fatto da spina dorsale alla coscienza politica di una città, ancora oggi – da pensionato – è la voce più autorevole del Calp, il collettivo di autonomi che sulle banchine genovesi resiste ai cambiamenti del settore e all’eterno braccio di ferro con i terminalisti. Nei mesi scorsi c’era anche lui, tra i lavoratori che hanno provato a bloccare l’attracco in porto delle navi delle armi destinate allo Yemen. Ed è con lo stesso spirito che ha lasciato fare del proprio dolore una battaglia per tanti. «Non avrei mai pensato né tantomeno voluto che Martina diventasse un simbolo, la rivorrei qui con me», dice. «Ma almeno che serva a portare avanti lotte giuste che meritano di essere portate avanti, e io stesso porterò avanti finché avrò energia». 

La richiesta di verità e giustizia per Martina Rossi, più di ogni altra, oggi fa da bandiera per “Non una di meno” e altre associazioni in prima fila nella lotta alle violenze di genere. «Quella per Martina è la lotta per tutte le donne, per difenderle dalla prevaricazione di tanti uomini, violenti, privi di coscienza», dice Bruno Rossi.

Chiede di non accennare nessun paragone con la vicenda di Ciro, il figlio di Beppe Grillo accusato di stupro. «Ho visto il suo intervento in difesa del figlio, è stato orribile, da pazzi, ha usato parole così lontane dalla mia mentalità e da quello che era mia figlia». Ma ribadisce: «Il nostro dolore di genitori ha fatto da cassa di risonanza per un movimento, e questo perché in Martina e in noi si possono immedesimare tutti, ragazzi e genitori. Intorno a noi c’è tanta solidarietà, tante persone che fanno militanza per il bene comune. Perché prima o poi si possa vivere in un mondo dove le donne possano scegliere di fare l’amore quando ne hanno voglia, senza il rischio di diventare trofei, o di venire ammazzate come animali». «Quello delle violenze sulle donne è un problema culturale, che abbiamo tollerato per troppo tempo. Ma la coscienza per uscirne ce l’abbiamo, come uomini e come società. Il mondo migliore, l’ho imparato sul lavoro e nella solidarietà tra compagni, si costruisce a piccoli passi. Ognuno facendo la propria parte». 

Se il sorriso nelle foto di Martina è diventato simbolo della lotta alle violenze di genere, il suo processo nel tempo è diventato per il padre una missione, insieme l’unico scopo e il punto di partenza. Qualunque sarà l’esito del procedimento, la vicenda della famiglia Rossi «vogliamo serva a far riflettere un Paese sul sistema malato che  inceppa la Giustizia italiana», dice Bruno Rossi. Ogni giorno è un rimpianto, oggi. «Abbiamo voluto Martina a tutti i costi, è nata dopo 26 anni di matrimonio, – racconta, abbracciato alla moglie Franca – siamo stati due genitori anziani, forse troppo protettivi, e le abbiamo insegnato a nuotare in un mare pulito, senza avvertirla che può anche essere pieno di pericoli». Sono rimpianti i ricordi («Il diploma al classico, l’università a Milano, il talento per il disegno e la scrittura, la voglia di vivere: siamo felici e orgogliosi di com’era»), sono rimpianti i sogni («Oggi nostra figlia avrebbe trent’anni, adesso starei portando all’asilo il mio nipotino»). Ma sono rimpianti e tanta rabbia, forse ancora di più, «tutti i giorni e ogni singolo passaggio del nostro processo».

«Oggi siamo siamo soddisfatti, almeno ad una sentenza di condanna siamo arrivati, si è ristabilito ciò che accadde e per noi è comunque importante. Ma sono dieci anni che triboliamo giorno e notte, contro tutto e tutti. Non sappiamo ancora se e con quale risultato». 

La storia giudiziaria seguita alla morte di Martina, del resto, è stata da subito una via crucis fatta di errori e negligenze, indagini superficiali, sgambetti legali, infinite perdite di tempo. Dalla frettolosità con cui le autorità spagnole avevano liquidato la vicenda come un caso di suicidio, fino alle accuse stabilite già prescritte (morte in conseguenza di altro reato) e l’ottovolante delle sentenze (tra la condanna in primo grado, l’assoluzione in appello, poi il passaggio dalla Cassazione e il via al processo bis), i genitori Rossi in questi anni hanno ribattuto colpo su colpo al loro percorso ad ostacoli. «Siamo stati io e mia moglie a far riaprire le indagini. In Spagna volevano farlo passare come gesto volontario, quando siamo arrivati a Palma di Maiorca avevano già fatto l’autopsia, volevano insabbiare in fretta», insiste il padre. E poi, ancora, i «mille cambi di versione» degli avvocati degli imputati, i poco più che trentenni Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, o «i modi con cui non si sono fatti trovare per mesi, per far slittare i tempi delle notifiche della Procura». Quindi le bugie di alcuni testimoni, «di chi ha osato mentire dicendo mia figlia facesse uso di psicofarmaci o avesse consumato droga, tutti dati risultati completamente falsi, solo per rallentare la ricerca della verità». Pure i depistaggi degli amici degli imputati, Federico Basetti ed Enrico D’Antonio, accusati di aver coperto i responsabili della tragedia con false testimonianze. Le cui condanne – anche quelle – rischiano di finire in prescrizione a inizio 2023, visto che i loro difensori hanno fatto ripartire tutto il procedimento da zero.

«La Giustizia con cui ci siamo scontrati noi è un sistema che non funziona, ostaggio di eserciti di azzeccagarbugli, dove il principio sacrosanto della difesa dell’accusato permette che a forza di bugie si possano inquinare anche le verità più limpide, dimenticare il merito delle questioni dietro la forma e le cancellerie – conclude Rossi – Gli avvocati dei ragazzi che mi hanno ammazzato Martina hanno cambiato in corsa prove, permesso di stravolgere i tempi del processo, fatto dimenticare la sostanza delle colpe. Ovvero che una ragazza di vent’anni, per scappare da un tentativo di violenza di gruppo, è stata lasciata morire dopo un’agonia di 40 minuti, ancora oggi senza il minimo pentimento. Invece di cercare e stabilire la verità con trasparenza e semplicità, oggi i processi ring, dove in qualche modo vince sempre il più forte, chi ha già i mezzi, chi ha i soldi, chi ha potere. Noi stessi, se non fossimo stati economicamente all’altezza, non avremmo mai potuto sostenere un processo lungo dieci anni. Io ho combattuto una vita per aiutare gli altri, sul lavoro, nella politica, nella società. La parola giustizia dovrebbe voler dire parità, ricchi e poveri, primi e ultimi, non tutela dell’interesse di persona, o di categoria. Gli assassini di Martina faranno meno carcere di chi ruba una mela, se lo faranno». 

La battaglia di Bruno, non appena arriverà una giustizia per Martina, in parte anche per questo è già da tempo quella dei tanti – tra associazioni e comitati, compresi quelli che riuniscono i familiari delle vittime delle stragi, da quella di Viareggio a quella del ponte Morandi – che hanno partecipato al dibattito sul cammino della riforma della prescrizione, un nodo che in questi giorni sta tornando ad agitare gli animi all’interno del governo. «Io sarò sempre garantista, ma la prescrizione non dovrebbe esistere proprio, soprattutto quando a venire schiacciati sono i più deboli, le donne, i poveri, i migranti. Un altro motivo per cui oggi combatto per mia figlia e insieme il principio di una giustizia che non è giusta. Perché oggi conta ancora qualcosa andare ad arrestare persone in Francia a 40 anni dalle loro colpe, e non dovrebbe contare far soffrire una famiglia per dieci anni e poi far svanire tutto con la prescrizione? Niente e nessuno ci potranno ridare indietro nostra figlia e alleviare il dolore mio e di mia moglie, ma almeno che la sua, la nostra pace, prima o poi, servano a qualcosa. Faremo la nostra parte fino all’ultimo, sarà l’unico modo per contribuire a fare un mondo migliore».



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