Herat è lontana. E i collaboratori della base italiana restano in trappola

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A Herat è buio anche di giorno. Adesso che non ci sono più occhi stranieri a illuminare le violenze dei talebani. A circa mille chilometri di strade insidiose se non letali dalla capitale afghana di Kabul, ancora due mesi fa, come per quasi vent’anni, Herat era una zona di controllo dei soldati italiani incaricati di importare e ripristinare una pace duratura o qualcosa di simile. E lì restano braccati centinaia di ex collaboratori, dipendenti, assistenti locali degli italiani, più di un migliaio di afghani se si computano le famiglie, generazioni di traditori per gli studenti coranici, obiettivi sensibili, fragili, immobili, non rassegnati, esposti alle ritorsioni. Il censimento non è ufficiale. Non ha un punto. Non si mette un punto alla disperazione.

Ogni giorno l’elenco si amplia, si verifica, si corregge. Per aggiungere il posto a chi ha vinto la morte e si è imbarcato a Kabul. Per barrare il posto a chi a Kabul non ci è mai arrivato. Con cinismo si tratta di altri effetti collaterali di una guerra che tende la mano a un’altra guerra.

Herat è un tormento per il ministero della Difesa. «Per me è un dolore professionale perché mi onoro di aver partecipato alla missione Nato e un dolore morale perché mi sento in debito nei confronti degli afghani che ci hanno aiutato. Oggi pensiamo a salvare vite umane, poi ripasseremo gli errori commessi. E soprattutto le lezioni apprese come siamo abituati a fare», dice il generale Luciano Portolano, quarta stella appuntata lo scorso luglio, militare stimato in maniera trasversale, comandante del Comando operativo di vertice interforze (Covi), di fatto il responsabile del ponte aereo fra Kabul e Roma con scalo in Kuwait che in una settimana ha recuperato 3.000 profughi. In Afghanistan la promessa di democrazia si è sbriciolata in pochi giorni e in quei pochi giorni il dramma di Herat si è dipanato per eventi di certo travolgenti, forse prevedibili, almeno arginabili. Quello che è successo, e non smette di succedere nel buio, merita un po’ di luce.

IL PROLOGO
Quando l’8 giugno il ministro Lorenzo Guerini ha partecipato alla cerimonia dell’ammaina bandiera alla base di Herat per avviare il ritiro dall’Afghanistan dopo 54 caduti, 625 feriti, 50.000 donne e uomini impiegati, 9 miliardi di euro spesi, il Comando operativo di vertice interforze si era già preparato al rientro di oltre 500 afghani legati ai contingenti italiani e accolti a Roma per ragioni di sicurezza. Il piano a «condizioni permissive e non permissive» è rimasto in bozza tra aprile e maggio per le esitazioni americane sui tempi e sui modi di uscita.

Com’è noto i ministri tedeschi e italiani erano contrari a un ritiro totale con una data fissata, che poi è la sciagurata opzione ordinata dalla Casa Bianca del presidente Joe Biden in sintonia con gli accordi di Doha (Qatar) fra i talebani e l’amministrazione Trump del febbraio 2020. Una lenta e però non inattesa imposizione per gli altri membri Nato. I comportamenti autonomi (o autarchici) di Washington a volte non consentono agli alleati di garantirsi varietà di scelte, ma da un anno e mezzo il programma afghano era palese. Un aneddoto ne chiarisce il senso: due governi e due anni fa, durante la stagione gialloverde con la prima versione di Giuseppe Conte, il ministro Elisabetta Trenta chiese allo Stato maggiore della Difesa di illustrare il piano di esfiltrazione a «condizioni non permissive», in caso di guerra improvvisa, per la vicina Libia e il lontano Afghanistan. Non c’era niente da illustrare per Herat e Kabul.

Gli americani si infuriarono alla semplice domanda perché la missione afghana non era in discussione anche se Donald Trump reiterava annunci e smentite. Con queste premesse e con i talebani in avanzata da sud, il Covi del generale Portolano ha organizzato l’operazione «Aquila», calibrata rispetto alle indicazioni dei generali di stanza a Herat. Il ministero degli Esteri ha sbrigato le pratiche burocratiche per i visti, il ministero dell’Interno ha effettuato le sue analisi e, con tre voli in giugno, 228 collaboratori afghani, appartenenti alla lista «h1», sono atterrati in Italia. L’ultimo segmento si è aggregato ai soldati italiani sbarcati a Roma il 30 di giugno. Giorno non casuale. Era la vigilia della consegna agli afghani dell’aeroporto di Herat. Gli altri 300 inseriti nella lista «h2» erano in procinto di partire da Herat per Kabul o direttamente da Kabul con voli civili dei turchi.

L’EPILOGO
In tre settimane i talebani hanno sigillato l’aeroporto e conquistato Herat. E per la lista «h2» l’unico sbocco era Kabul o cercare riparo nei paesi confinanti come l’Iran. La maggioranza della popolazione di Herat è di origine persiana.

In agosto il mondo ha guardato sgomento soltanto a Kabul, a quella massa terrorizzata, con in mezzo anche gente di Herat, gli amici degli italiani, che si è spinta contro il muro di cinta e il filo spinato dell’aeroporto in cui a ferragosto si sono asserragliati i militari Nato però non più sotto le insegne Nato, comunque gli stessi che portavano la pace e oggi se ne vanno sprovvisti.

La prima contestazione, secondo le testimonianze e le ricostruzioni raccolte, che si può muovere al sistema militare italiano sulla imperfetta gestione di Herat: scaglionare ha rallentato i processi, era preferibile evacuare gli afghani con la base aperta. No, perché senza la copertura logistica, aeronautica e di intelligence degli americani, spiegano le fonti della Difesa, non era possibile prolungare la permanenza nella provincia di Herat.

A ferragosto i talebani hanno issato la loro bandiera e gli occidentali si sono affrettati nel proteggere connazionali e collaboratori. Allora il Comando operativo di vertice interforze ha varato “Aquila omnia” che coinvolge 1.500 militari e 8 aerei fra C130J e KC767 con il compito di trasferire in Italia il maggior numero possibile di afghani in un contesto di estremo pericolo. Dopo la «h1» e «h2», le liste si sono allungate sino a «h5». I 500 di Herat sono diventati più di 2.500, quota parziale, e la metà risulta già in Italia. Gli altri, donne, bambini, uomini, sono in fuga per non morire verso ovest o verso est e dunque per l’aeroporto di Kabul attraverso i gironi infernali sorvegliati dai talebani armati. Gli altri, donne, bambini, uomini, conoscono un ufficiale, un tenente colonnello, un generale o proprio Portolano che li accompagnano, a distanza, alla pista per il decollo, mandano fotografie, messaggi, filmati. «Io non dimentico gli amici che mi hanno strappato dalla tragedia. Al momento sono in aeroporto e sto aspettando il volo per la Francia. Non ho parole per ringraziarla, generale. Mi sento sollevato», ha scritto un afghano di Herat a un ufficiale in servizio al ministero della Difesa.

Non esiste una procedura per la salvezza. Chi sopravvive, si riprende la vita. Ogni precauzione è saltata. È un rischio, non calcolato, ma non eludibile. La confusione ha mobilitato i politici: la viceministra Marina Sereni ha segnalato i suoi afghani; la parlamentare europea Alessandra Moretti e il sindaco veneziano Luigi Brugnaro si sono contesi il merito di aver sottratto al regime la sorella di un imprenditore veneto; il presidente aggiunto del consiglio di Stato nonché già ministro degli Esteri Franco Frattini si è preoccupato degli alpinisti e poi la deputata Lia Quartapelle, le fondazioni, le associazioni. Anche la solidarietà delle relazioni va apprezzata. Chi non ne ha, di relazioni, è fregato.

La seconda contestazione: non era meglio individuare in anticipo gli afghani di Herat da tutelare in uno scenario di dominio talebano. No, nessuno poteva ipotizzare, precisano dalla Difesa, un tracollo così repentino del governo riconosciuto di Ashraf Ghani o poteva calcolare i profughi «volontari» di Herat.
La terza contestazione: un gruppo più folto di militari all’aeroporto di Kabul – dopo ferragosto c’erano 120 unità fra scorte ai funzionari italiani come al diplomatico Tommaso Claudi o al generale Giuseppe Faraglia con in supporto le forze speciali, compagine inferiore ai tedeschi, ai francesi, agli inglesi e ovviamente agli americani – poteva svolgere azioni di recupero nella capitale o addirittura a Herat. No, non c’erano le condizioni, ribattono dalla Difesa, per vaste sortite fuori dall’aeroporto.

Lo scalo di Kabul era affidato ai turchi, poi sono subentrati gli americani con gli inglesi. I militari italiani sono in un corridoio di una parte a guida americana e attraverso quella porta si sale a bordo dei C130J che fanno la spola fra la capitale afghana e Kuwait City. Per situazioni di emergenza che riguardano gli italiani, anche se i connazionali sono dentro l’aeroporto, altri corpi speciali sono a tre ore di volo. Herat è isolata. Buia. Invece gli sbagli si cominciano a vedere.

IL POTERE
Questa fase complessa e delicata per la Difesa avviene a pochi mesi da un giro di nomine che sancirà una nuova stagione e che ha già la sua influenza. A novembre va in pensione il generale Enzo Vecciarelli, capo di Stato maggiore della Difesa proveniente dall’Aeronautica, intenzionato a segnare la sua eredità con le promozioni. Per la turnazione delle forze armate, stavolta tocca alla Marina, però l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone conclude la carriera fra un anno e perciò non potrebbe terminare l’intero mandato.

Il candidato principale per la successione a Vecciarelli è il generale Pietro Serino, già capo di gabinetto dei ministri Trenta e Guerini e da febbraio capo di Stato maggiore dell’Esercito. E di conseguenza per il ruolo di Serino il ballottaggio sarebbe fra il generale Portolano e il generale Figliuolo: il primo ha il consenso giusto e l’esperienza adatta, il secondo, commissario di governo alla pandemia, non può gareggiare. Oltre allo Stato maggiore della Difesa e allo Stato maggiore dell’Esercito, a novembre lasciano il generale Enzo Rosso, capo di Stato maggiore dell’Aeronautica e il generale Niccolò Falsaperna, segretario generale della Difesa. Le «lezioni apprese» di Herat si tengono ora e saranno preziose per l’autunno.



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di Carlo Tecce
espresso.repubblica.it
2021-08-26 12:58:00 ,

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